la Repubblica, 20 dicembre 2015
La ex moglie di Muhammad Ali, ovvero di Cassius Clay, racconta la sua vita con The Greatest e, in particolare, come fu quella volta che lo prese a sberle
MIAMI. È la donna che ha steso Ali. Nel ring di una camera, senza testimoni. Ancora adesso non le servono i guantoni. È imponente, non proprio una bambolina: se vi dà una sberla, vi rigira. Bel viso, occhi che non si abbassano, tratti decisi. Conosce anche le arti marziali, è stata cintura nera di karatè. Rappa, come faceva lui.
Khalilah Camacho Ali, prima si chiamava Belinda, è la seconda moglie di Muhammad Ali. Quasi dieci anni di matrimonio, quattro figli, tre femmine, un maschio. Forse la moglie più importante: lei c’era quando Cassius Clay è diventato Ali, lei c’era quando lui rifiutò di andare in Vietnam (‘67), lei c’era nello Zaire, Rumble in the Jungle (contro Foreman nel ‘74), lei c’era nelle Filippine,
Thriller in Manila (contro Frazier nel ’75). Ali con lei ha fatto le cose più grandi: sul ring e fuori. E ora lei rivendica il suo ruolo: di donna che lo ha reso il campione della gente. The Greatest,
appunto. Khalilah, sessantacinque anni, è di Chicago, ma vive a nord di Miami.
Quando vi siete conosciuti?
«Avevo undici anni, portavo la coda di cavallo, ci è venuto a trovare nella scuola islamica. Si è avvicinato, mi ha dato la foto autografata, gli ho chiesto: come ti chiami? E lui: Cassius Clay. Gli ho risposto: ma che razza di nome è? Clay,
come fango, terra? Sei ridicolo. Ho preso l’autografo
e l’ho stracciato: torna quando avrai un nome decente, gli ho detto».
Però, che carattere.
«Quello non mi mancava. Ero giovane, ma culturalmente non una sprovveduta. E mi scappavano più no che sì. Ero di Chicago, mio padre leggeva molto, usava spiegarci tutto, militava con Elijah Muhammad, della Nation of Islam. Io non avevo bisogno di convertirmi, avevo fede e disciplina».
Ali tornò a trovarla.
«Un po’ di anni dopo. Lavoravo in una panetteria, faceva il simpatico, voleva accompagnarmi a casa. Ma a me non va, dissi, e nemmeno i miei saranno d’accordo. Avevo sedici anni, lui ventiquattro. Un giorno venne e pioveva, sali in macchina che ti dò un passaggio, mi disse. Non ci penso proprio, gli risposi, ma se vuoi, puoi seguirmi mentre cammino. E così fece, tenendo il finestrino abbassato. Almeno aveva capito che con me non funzionava come con le altre. Ero un maschiaccio, m’interessavano solo i cavalli».
Lo sposò.
«Sì. Anche se i miei erano contrari. Era alto e belloccio, a me bastava. Ero vergine, veniva sempre a cena a casa, mai uscita sola con lui. Aveva divorziato dalla prima moglie, Sonji, perché lei non voleva rinunciare alle minigonne e al trucco. Lui le disse: ti comprerò un vestito semplice e modesto. Lei gli rispose: accosta, e scese per sempre dalla macchina. Con me non correva rischi, non ero troppo vezzosa, né avevo grilli nella testa. In viaggio di nozze andammo a New York e la rivista Ebony ci dedicò sette copertine. Ma Ali nel privato era diverso da come si mostrava in pubblico. In quel momento lì era giù di morale, anzi era depresso, molto infelice. Gli avevano tolto il titolo mondiale e la licenza pugilistica, non poteva combattere, non aveva soldi, né carte di credito. Era a terra, in tutti i sensi. Io gli ho insegnato ad avere fiducia in se stesso. Io l’ho mantenuto per tre anni».
Come?
«Con i soldi di una borsa di studio universitaria. Cucendo abiti, ricamando, cucinando mattina e sera, mandando avanti la casa, senza aiuti, non chiedendo mai un dollaro. Senza fargli sapere che stavo usando un mio fondo, perché il suo orgoglio maschile ne avrebbe sofferto. Così come l’ho convinto che fosse giusto rifiutare il servizio militare per il Vietnam. Certi titoli te li possono togliere, altri no, e sono quelli che ti dà la gente, quando diventi un simbolo. Lui era incerto, sapeva di rischiare molto, ma non vedeva».
Cosa?
«Che fuori c’era un mondo, una generazione pronta a seguirlo. Che il suo gesto avrebbe significato tanto per molti. Erano anni di contestazione. Glielo ripetevo: ci sono molti modi per battersi. Tu sai solo dare pugni, ma puoi diventare il campione della gente, di chi protesta per una guerra assurda. Trova un altro modo di essere un eroe, fuori dal ring. Gli ho preparato i discorsi, gli ho insegnato a parlare quando non si trattava di boxe. Gli ho detto che poteva farsi ascoltare dalla gente, di preoccuparsi di quello, doveva costruirsi una personalità. Non si trattava solo di provocare, ma di dare coerenza a quell’impegno. Il resto sarebbe venuto. L’ho guidato, ma è stata una battaglia. Gli dicevo: io scrivo, tu leggi. Sia chiaro: non era un fantoccio nelle mie mani, ma io l’ho spinto e sorretto».
Vuol dire che c’era lei dietro?
«In quel momento era un cane bastonato. Forse fuori sembrava forte, ma a casa era abbattuto, fragile, con l’autostima sotto i tacchi. Non riusciva a mantenere la famiglia, non aveva contratti. Era abituato a dominare sul ring, ad avere una classifica, gli mancava quell’identità, quella conferma del suo valore. Io lo incitavo, gli dicevo: possiamo fare degli spettacoli a Broadway, andare lì a raccontare la nostra storia, proviamo a chiedere sostegno a quelli che la pensano come noi. Quindi la risposta è sì. Io ho cercato delle vie d’uscita, io l’ho spronato a non abbattersi. E l’ho allenato a reggere la scena. E insieme abbiamo fatto Maryum nel ‘68, le gemelle Jamillah e Rasheda nel ’70, e finalmente il maschio Muhammad jr. nel ‘72, a cui lui teneva molto. Gli ricordavo: abbiamo una famiglia, credici, anche quella è un valore. Lui non ha capito subito che fuori dal ring poteva avere un’altra dimensione. E che per farlo doveva battersi, sostenere dei principi che lo avrebbero reso nemico a una parte dell’America, ma un grande campione dell’altra. Lui aveva il coraggio, ma io glielo ho tirato fuori».
Però lui l’ha tradita.
«Sì, quando stava con me ha fatto figlie un po’ ovunque. Qualcuno ha ancora illusioni sugli uomini? Non è che abbia avuto grandi esempi, suo padre era peggio: beveva e andava a donne. Però fino a quando è stato mio marito mi ha sempre ascoltato. Aveva fiducia in quello che dicevo. Anche in Africa, a Kinshasa, quella notte ero lì, a bordo ring».
Lei era l’unica a darlo vincente.
«Sapevo che contro Foreman ce la poteva fare. Non era facile, ma nemmeno impossibile. Bisognava però mettere in testa ad Ali una cosa: doveva allenarsi bene, perché a volte trasgrediva, e doveva dormire da solo di notte».
Da solo?
«Sì. Si era portato dietro l’altra, Veronica Porsche, una delle quattro ragazze ritratte nel manifesto dell’incontro. La faceva passare per mia cugina, per bambinaia, sapevo che ci andava a letto. Ma quello non era il momento per regolare i conti, nè per lui quello di fare sesso».
E dopo?
«Gli spiegai. La poligamia in America non era accettata e noi lì vivevamo. Non me la venisse a raccontare in versione islamica. In più davanti ai figli non poteva mancarmi di rispetto in quel modo, era una questione di dignità. Un conto sono le avventure, un altro le storie parallele. Tutti possono avere figli, ma da uomini a diventare padri ce ne vuole».
A Manila lei lo picchiò.
«Mi arrabbiai perché lui presentò Veronica come sua moglie al presidente Marcos. Ma io non ero lì, lo lessi sui giornali. Così gli urlai al telefono, e lui mi disse: sono balle, non è vero niente, vieni qui a controllare».
E lei?
«Nemmeno feci i bagagli, m’imbarcai subito: ventisei ore di viaggio via Parigi per arrivare a Manila. Non ne potevo più, volevo sbugiardarlo. Alla Casa Bianca per re Hussein di Giordania aveva lasciato la cena dicendo: me ne devo andare, mia moglie sta partorendo, e tutti sapevano che non ero io, ma un’altra».
Dicono che lei buttò giù la porta della stanza.
«Ero piuttosto infuriata quando sbarcai nelle Filippine. E sì, più che una visita feci un’irruzione. Le guardie del corpo non tentarono nemmeno di fermarmi».
Cinque minuti di grande rabbia?
«Facciamo quindici. Ma non mi dilungo, vorrei raccontare i particolari in un libro. Le ho detto che ero cintura nera di karatè?».
Gli mollò degli schiaffoni, devastò la sua camera.
«Diciamo che prima dei round con Frazier se la dovette vedere con me. E non ero meno dura. Ma volevo proteggere i miei figli, avevano una madre che non si abbassava a certi compromessi. Chiesi il divorzio. Ali sul ring è stato grande, come marito un po’ meno».
Come sono i vostri rapporti ora?
«Erano buoni fino a un po’ di tempo fa. È stato un colpo vederlo cambiare, ha iniziato a tremare sempre di più. Ma io gli parlavo all’orecchio dei vecchi tempi, lui era affettuoso, si divertiva. Ancora non prendeva tutte quelle pillole che gli dà Lonnie, la sua quarta moglie, quella a cui lui ha pagato gli studi sin da piccola. Non era contento di assumere tutti quei farmaci. È un’altra persona sotto quel trattamento, sembra rimbecillito. Ma ora è lei a occuparsi di lui. E da quando c’è lei, è isolato, noi non contiamo più molto. Non accuso nessuno, ma credo che un Ali stordito dai medicinali faccia comodo».
Non è gelosia la sua?
«Io sono andata avanti. Ho fatto tante cose, anche una piccola parte nel film Sindrome Cinese con Jane Fonda. Mi sono risposata, ho avuto altre due figlie, non voglio parlare male di lui, non mi appartiene più. Se dico che ho conosciuto Ali quando non era ancora Ali non è per vendetta. Io gli ho mostrato quello che poteva essere. Sì, io ho fatto Ali, lui ha fatto me, e insieme abbiamo fatto un pezzo di storia».