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 2015  dicembre 20 Domenica calendario

Iglesias, Rivera, il re giovane e il vecchio Juan Carlos che s’è riavvicinato alla moglie. La Spagna alla vigilia del voto che non lascerà niente come prima

DAL NOSTRO INVIATO
MADRID È il primo voto democratico senza re Juan Carlos e con quattro grandi partiti. Stasera arriverà primo con un buon margine Rajoy, il presidente in carica, che potrebbe formare un governo di minoranza magari in vista di altre elezioni; ma questa domenica resterà nella storia grazie a tre volti nuovi. Albert Rivera di Ciudadanos, 36 anni, in declino rispetto ai trionfali sondaggi di venti giorni fa, che però occupando il centro sarà decisivo per far nascere qualsiasi esecutivo. Il re al battesimo del fuoco, Felipe VI, 47 anni, che finora non ha sbagliato una mossa. E Pablo Iglesias detto «El Coleta», il Codino, che con una campagna da istrione carismatico ha portato Podemos dal 14% al 20 e punta a superare i socialisti.
«Remontada! Remontada!» gridava alla fine di ogni comizio. Iglesias è tecnicamente un mitomane. Dice frasi tipo «sarò il primo leader spagnolo che parla inglese», «sono Davide contro Golia», «se avessimo fatto un dibattito a quattro prenderei la maggioranza assoluta». In effetti ha vinto tutti i duelli a cui ha preso parte, e Rajoy ha evitato con cura di affrontarlo. I suoi lo adorano. Le ragazze impazziscono. «I suoi meeting hanno una forte carica romantica, quasi religiosa – ha notato John Carlin su El País, giornale certo non ostile —; e la figura di Iglesias coincide con quella di Gesù Cristo». Non a caso lui parla di «poveri in spirito», «sale della terra» e «potenti da confondere». L’altra sera a Valencia l’ex braccio destro Monedero, accusato di aver preso i soldi da Chávez, l’ha baciato sulla bocca. Lui canta, si batte il pugno sul cuore, piange abbracciando la mamma. Orecchino, decine di braccialetti, barbetta incolta. Molto simpatico. Di una spregiudicatezza intellettuale impressionante: è passato dal Venezuela alla Svezia, dall’anarchia alla socialdemocrazia, dall’uscita dalla Nato all’ossequio al re. Continua però a detestare Felipe González, «personaggio moralmente decrepito», ogni volta che lo nomina la platea esplode in un «buuu» carico di disprezzo. L’ha molto aiutato Ada Colau, sindaco di Barcellona, e lui ha promesso ai catalani un referendum per l’indipendenza. Padrone dei social media, su cui i fan caricano video di Iglesias che combatte il male con la spada laser di Star Wars, Iglesias che si allena con la tuta di Rocky, Iglesias guerriero medievale che fa strage di nemici; lui del resto è convinto di vivere in una puntata di Game of Thrones. Il vecchio Lula l’ha incoronato: «In Pablo rivedo qualcosa di me stesso da giovane». Una mano gliel’ha data anche il candidato socialista Pedro Sánchez, apparso modesto, sempre bisognoso di alzare la voce per farsi sentire. Per spaventare i moderati Rajoy evoca la minaccia di un governo Podemos-Psoe, con Iglesias presidente, e aggiunge: «Noi sì che siamo un partito serio. Non siamo nati in un talk-show. Non siamo un prodotto di marketing».
Il «prodotto di marketing» sarebbe Rivera. In effetti, quando Podemos era primo partito, l’establishment spagnolo ha cercato un anti-Iglesias e l’ha trovato nel giovane catalano. Nato a Barceloneta, antico quartiere marinaro e popolare, Rivera è però un rivoluzionario borghese. Il maggior peso politico di Rajoy l’ha ridimensionato, riportandolo sotto il 20%. Nei dibattiti è parso nervoso, irritabile. Resta un personaggio interessante. Nell’ultimo comizio, venerdì sera a Madrid, in Plaza Santa Ana, la piazza dei teatri e dei caffè, ha tenuto una lezione di storia a tremila ragazzi ignari, evocando i grandi momenti di unità nazionale: la rivolta del 1808 contro i francesi invasori, la transizione postfranchista guidata da Adolfo Suárez, suo leader di riferimento, che quasi nessuno dei presenti ricordava. Il messaggio in realtà era chiaro: Rivera si presenta come l’unico in grado di dare una prospettiva al Paese; «in Parlamento ci asterremo per far governare chi arriva primo».
Stasera cominceranno le trattative. L’articolo 56 della Costituzione stabilisce che il monarca «arbitra e modera il funzionamento regolare delle istituzioni». Juan Carlos non aveva mai avuto problemi a indicare il capo del governo; le urne indicavano sempre un vincitore, e se mancava la maggioranza assoluta i catalanisti erano pronti a dare una mano in cambio di prebende. Stavolta i capi partito dovranno trovare un accordo per non mettere in difficoltà il re; un po’ come accadde in Inghilterra nel 2010, quando si ruppe il bipartitismo e Cameron riuscì a governare grazie al liberaldemocratico Clegg; qui in Spagna il ruolo di Clegg tocca a Rivera, che spera di non fare la stessa fine.
Re Felipe peraltro se la sta cavando bene, anche sulla questione catalana. Sia Rivera sia Iglesias sono repubblicani, ma non intendono mettere davvero in discussione la monarchia. Si parla anzi di cambiare la Costituzione, per consentire alla primogenita Leonor di regnare: il padre non le ha dato il titolo di Infanta ma di principessa delle Asturie, che spetta all’erede al trono. Gli spagnoli non rimpiangono Juan Carlos ma l’hanno perdonato, dopo che nell’ora più nera della crisi era partito per la caccia all’elefante. Indimenticabile il suo messaggio tv di quattro secondi: «Lo siento mucho, me he equivocado, no volverá a ocurrir»; ho sbagliato, mi spiace, non succederà più. L’anziano re ha abdicato al momento giusto. Si è anche riavvicinato alla regina Sofia: non convivono ma compaiono insieme in pubblico. Lui ormai somiglia in modo impressionante ai ritratti un po’ grotteschi che Goya fece al suo antenato Carlo IV.
Fuori dal Prado, i mendicanti presidiano gli incroci. Molti sono ex borghesi che hanno perso la casa. Il meccanismo è stato feroce: con i salari bloccati, per mantenere alti i consumi si sono moltiplicati i debiti, garantiti da case sopravvalutate o mai costruite; quando la catena si è spezzata, le banche sono state salvate, i titolari dei mutui no. Altri questuanti sono musicisti, giocolieri, artisti di strada. Un giovane su due è disoccupato, nei primi sei mesi dell’anno in 50 mila sono andati all’estero: il film che ha segnato l’epoca è la storia di un gruppo di ingegneri spagnoli che vanno a Berlino a lavorare come lavapiatti nel ristorante di un turco. Per la prima volta dal 1944, l’anno della carestia quando si pativa davvero la fame, i morti sono più numerosi dei neonati.
È proprio la rabbia dei giovani a spingere Iglesias e Rivera. È il rifiuto del Pp e del Psoe, entrambi corrottissimi, che continuano a essere i più votati dagli anziani e in provincia. A Barcellona il movimento dei senzatetto ha fracassato le vetrine delle sedi di tutti i partiti, tranne quelle di Podemos. Stasera Rajoy uscirà in testa dalle urne; ma nulla sarà più come prima. La Merkel è preoccupatissima.