il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2015
Da gigolò a clochard, Richard Gere si racconta a Malcom Pagani
“Non mi farà notare anche lei che il regista ha lo stesso cognome del vostro premier?”, nelle sale italiane dal 23 dicembre per Lucky Red. Concluso in soli 31 giorni, Gere ha letto il copione e ha deciso di interpretare un uomo in ritirata, scisso tra i ricordi del passato e lo straniante rapporto con il presente perché: “Denaro ne ho guadagnato già abbastanza e da qualche tempo scelgo solo opere che possano aiutare i giovani talenti a farsi strada”. Ora è a Roma e in attesa che Bertolucci gli offra un’occasione: “Mi piacerebbe, perché no?” si consola con yoghurt e cereali in una stanza del grande albergo che lo ospita a un passo da Piazza del Popolo.
Fare colazione in pace è un privilegio?
Neanche un po’. A New York porto mio figlio a scuola, pulisco la lettiera al gatto, trascino il cane al parco e una colazione seria la faccio tutti i giorni. Mi siedo in un bar, leggo un giornale, non c’è una sola persona che si avvicini incuriosita.
Dice davvero?
New York è uno dei pochi posti al mondo in cui nessuno si cura di te. Sanno chi sei, certo. Ma vanno tutti di corsa e non gliene frega niente. Hanno visto tutto e tutti. Tu sei solo una faccia tra le altre. Buttano uno sguardo e proseguono altrove. Le racconto una cosa.
Siamo qui.
Pochi mesi fa ho interpretato il ruolo di un homeless in Time out of mind. Abbiamo girato a TriBeCa, nella parte sud di Manhattan, per tre settimane. Sono stato seduto in mezzo alla strada con un cartello e una coperta per giorni e giorni. Io e Over Moverman, il regista, eravamo preoccupati. Dovevamo restituire una sensazione di realismo e avevamo nascosto le telecamere in modo che non si vedessero. Temevamo che riconoscendomi, la gente avrebbe interrotto la lavorazione e reso il film meno credibile. Ci crede se le dico che non si è fermato nessuno?
Nessuno?
Nessuno. È stata un’esperienza molto strana e profonda perché ho verificato con i miei occhi la superficialità dello sguardo altrui. All’angolo di una strada, senza una passerella, un tappeto rosso o uno smoking, ero soltanto un volto anonimo. I passanti, gli stessi che in un’occasione mondana si sarebbero avvicinati per ottenere un autografo o una fotografia, mi superavano veloci e distratti. Da lontano, un senza tetto è sempre e solo un senza tetto. Un dimenticato. Un invisibile.
Si stupisce?
Sarebbe ipocrita. Presto o tardi, capita a tutti noi di essere superficiali. Anzi, per essere ancora più chiari, ci capita di esserlo il 99 per cento delle volte.
“In America non sono gentili con la gente, sono gentili con le carte di credito”, diceva inPretty Woman.
Anche se Pretty Woman non fu girato a New York, ma a Los Angeles, la massima è esportabile e ancora attuale da un lato all’altro dell’America.
Peccare di superficialità: è accaduto anche a lei ?
Nella vita e anche nel mio mestiere, per tantissimo tempo. Fino ad American Gigolò, parliamo quindi del periodo tra la fine degli Anni 70 e l’inizio degli 80, non mi rivedevo neanche.
Come non si rivedeva?
Non riguardavo il lavoro quotidiano, i cosiddetti giornalieri, il momento in cui capisci se stai facendo bene o stai combinando un disastro. Iniziai a vederli con Paul Schrader, il regista di American Gigolò. Su quel set mi sentivo insicuro e avevo avuto pochissimo tempo per studiare la parte.
Pochissimo tempo quanto?
Due settimane al massimo. In American Gigolò dovevo parlare francese e persino svedese. Ero chiamato a interpretare un ruolo di cui sapevo poco o nulla. Così come ignoravo tutto del mondo dei gigolò di professione. Andai in avanscoperta in qualche locale gay per osservare da vicino le dinamiche in atto tra conquistatore e conquistato.
E come andò?
Dopo una decina di giorni di apprendistato mi presentai da Schrader. Ero scettico. Gli chiesi a bruciapelo: “Dimmi la verità: sto facendo tutto quel che un gigolò non farebbe mai?” e lui, serafico: “Proprio così. In compenso ora sai esattamente quel che non devi fare nel film”.
Era giovane.
Giovane e inesperto. Non possedevo neanche un abito elegante, un qualsiasi vestito da sera e non avevo idea di come si facesse il nodo della cravatta. Per interpretare quel ruolo dovetti lavorare molto anche sul fisico. Mi misi a dieta, andai in palestra, mi sottoposi a esercizi e a estenuanti sessioni di addominali.
Imparò a farsi il nodo della cravatta e anche a recitare?
American Gigolò fu una tappa importante e, veramente decisiva, paradossalmente, fu la fretta con cui ci avvicinammo alle riprese. Mi mise di fronte all’obbligo di far bene in un orizzonte di tempo molto limitato. Ora che posso, preferisco accettare parti che mi consentano una certa lentezza nell’approccio. Ruoli che permettano alle sensazioni di depositarsi.
Ne ha interpretati a decine. È contento del suo percorso?
Mi sento molto umile e non ho mai dato per scontato il successo. Ho iniziato a recitare sul palco di un teatro a 19 anni, ne ho 66 e ancora lavoro, mi emoziono e faccio cose interessanti.
Un miracolo ci diceva all’inizio.
Sono stato molto fortunato e ancora ringrazio il cielo ogni santo giorno. Ho sempre voluto lavorare con persone che rispettavo e stimavo. È stato l’unico confine che mi sono posto. Ogni volta che ho scelto di fare un film perché mi fidavo degli uomini o delle donne che me lo proponevano non me ne sono mai pentito.
Non sempre i film che ha scelto di interpretare sono andati bene.
È vero. Non sempre. Ho conosciuto anche gli insuccessi e ho attraversato anche io la mia zona buia. È inevitabile, ma non significa che mi sia pentito di aver affrontato l’impresa. Per me contano le motivazioni iniziali, non il risultato finale. D’altronde sapere in anticipo se un film andrà bene o male è un affare da sciamani. Prima che esca, per quante previsioni tu sia in grado di elaborare, non lo sa nessuno.
Nessun rimpianto, dunque?
Scherza? Non c’è cosa che abbia fatto che non avrei potuto fare meglio e non conosco un solo attore al mondo che non rivedendo il suo lavoro sia veramente soddisfatto di quel che passa sullo schermo. Dopo dieci anni magari, con la giusta distanza, forse guardandolo penserai: “Non è poi così male in fondo”. Ma solo dopo dieci anni, quando hai dimenticato tutto sui tuoi sforzi e su quel che tentavi e soprattutto speravi di ottenere prima.
A quasi 35 anni di distanza che memorie ha di Ufficiale e gentiluomo?
Un ottimo ricordo. Mi arrivò il copione. Aveva qualcosa di commovente e pensai di essere diventato improvvisamente molto romantico.
Quante volte le accade di commuoversi per un buon copione?
Mi accadde con Hachiko, la storia d’amore tra un cane e il suo padrone. Lessi il copione e piansi. Pensai: “Deve esserci qualcosa di strano, io non piango quasi mai”. Mi misi a rileggerlo di nuovo e piansi ancora. A cena con gli amici, raccontai la trama del film e piansi per la terza volta. Non poteva essere un caso.
Non era un caso neanche Ufficiale e Gentiluomo?
Prima di Ufficiale e Gentiluomo, il regista Taylor Hackford aveva girato un piccolo film e un cortometraggio premiato con l’Oscar nel 1979.
Titolo?
Teenage Father. Al centro della trama c’era una gravidanza adolescenziale. Taylor me lo mostrò. Era fatto molto bene. Mi piacque e glielo dissi: “È ottimo, però è poco più di un documentario”. Lui rimase in silenzio per qualche secondo e poi mi rese la pariglia: “Non lo è, cortometraggio e documentario sono etichette che non significano nulla. Teenage Father è una prova d’attore. Hai visto solo attori. Attori in scena. Tu non sei un attore?”.
Risposta secca.
Risposta che mi piacque immensamente: “Questo è in gamba” pensai. E ci mettemmo a discutere di Ufficiale e gentiluomo.
In che modo?
Gli esposi i miei dubbi. Gli dissi che la sceneggiatura aveva un proprio potenziale, ma che era troppo melensa. Passammo settimane a ripensarla, riscriverla, metterla in ordine. In un certo senso era ed è rimasta un’operetta. Una favola a cui provammo a dare una patina di realismo.
Un’operetta che incassò cento milioni di dollari.
L’ho rivisto recentemente perché due anni fa è uscita una versione restaurata del film e si è tenuta una proiezione a New York. Non lo vedevo dal 1982 e sono stato molto felice di averne di nuovo l’occasione perché è un film che mi sono, anzi ci siamo molto divertiti a mettere in piedi. Il budget era esiguo e sul set venimmo lasciati un po’ a noi stessi con una libertà d’azione anomala per un prodotto della Paramount. Di quel che le dicevo prima sul successo o l’insuccesso di un film, Ufficiale e Gentiluomo è la metafora perfetta.
Perché?
Perché non pensavamo potesse avere successo e non immaginavamo neanche lontanamente cosa sarebbe accaduto in seguito. Se guarda il film oggi, vedrà questi giovani attori, tutti bravissimi. Quasi tutti quegli attori hanno avuto una grande carriera. E c’è ancora oggi qualcosa di fresco, di autentico e di attuale in quel film. C’è un’energia speciale.
La stessa energia che trovò in Pretty Woman?
Qualcosa di molto simile. Era una favola anche quella. Anche lì, con gli attori, i registi e le maestranze si creò un’atmosfera magica.
Prima mi ha parlato di Terrence Malick.
Di Terry, certo. Io lo chiamo Terry.
Sul set de I giorni del cielo, Terry Malick le si avvicinava complice: “La scena che stiamo per girare deve avere la stessa forza del soffio di vento che ora fa vibrare la finestra e muove la tenda”.
Lo diceva, è vero. Perché Malick è un poeta e non disdegna il lirismo.
E il cinema è una tenda che si muove anche per lei?
Il cinema non è una cosa e basta. Non è solo una tenda che si muove nel vento, ma l’insieme di tantissimi elementi che per un tempo limitato si trovano a convivere e a collaborare su un unico progetto.
La sua sceneggiatura ideale?
Preferisco le sceneggiature solide, con una linea guida molto precisa. I giorni del cielo, ad esempio, sembrava proprio una di quelle sceneggiature. Terry Malick ci aveva presentato un copione molto tradizionale, molto scritto, con tantissimi dialoghi e un’infinità di parole. Molte più parole di quanto un qualunque spettatore del film avrebbe mai potuto immaginare. I giorni del cielo, in origine, non era un film misterioso.
Lo divenne?
Si trasformò completamente in fase di montaggio. Forse Malick si era annoiato di tutte quelle chiacchiere. O forse aveva capito che le idee venivano trasmesse in modo molto più forte con le immagini e che un primo piano, lo sguardo di un attore che ti regala un mondo di informazioni di natura emotiva, psicologica e intellettuale, è molto più efficace di una battuta per quanto ben scritta. Una cosa va detta però.
Ce la dica.
Certi cambi di registro e certe trasformazioni in moviola possono verificarsi soltanto quando hai un buon film tra le mani. È al montaggio che scopri qual è il tuo film. Con i film pessimi, con i film “tutto copione”, fare un prodigio e riscrivere la storia è quasi impossibile. Lì si monta tutto quel che hai e non si cambia nulla.
Altman, Kurosawa, Malick. Ha servito l’estro di grandissimi registi.
Ho incontrato per la prima volta Akira Kurosawa, un genio, il più geniale tra i geni del cinema mondiale, alla Japan House di New York. Si teneva una sua retrospettiva. Lo ammiravo così tanto e per l’ammirazione ne trasfigurai l’immagine. Mi sembrava enorme. Un altissimo gigante con lo sguardo fiero. Anni dopo, quando mi era già capitato l’onore di recitare per lui, incontrai un paio di amici che lavoravano alla Japan House: “Lo sai che abbiamo alcune foto in cui sei con Kurosawa?”. “Mandatemele subito”, gli dissi. Sa cosa ho scoperto in quelle foto?
Cosa?
Che Kurosawa non era un gigante e che era alto esattamente come me.
Ricorda All’ultimo respiro, il remake americano di A bout de souffle? Il suo personaggio pronuncia una battuta in bilico tra enigma e ironia: “Il futuro? Ne ho sentito parlare. Non l’ho mai visto”. Lei riesce a vederlo?
Di battuta me ne ricordo un’altra. Valèrie Kaprisky mi domanda: “Qual è la tua massima aspirazione?” e io rispondo: “Diventare immortale. E poi morire”. Preferisco questa. Per mille ragioni.