Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2015
I troppi debiti in dollari che minacciano i mercati
Dalla Turchia alla Russia, fino al «cortile di casa» dell’America Latina con un Brasile già in recessione e un’Argentina che vara cure-shock per l’economia in panne. Il rialzo dei tassi americani da sogno ideato dalla Federal Reserve – che immagina una tranquilla e lineare marcia a piccoli passi di un quarto di punto ciascuno nel corso dell’anno prossimo per normalizzare la sua politica monetaria – è una sfida da incubo oggi per molti, forse troppi mercati emergenti tutt’altro che marginali per la stabilità globale. La Fed potrà aver assicurato che le incognite all’estero sono diminuite, ma per crederci serviranno prove concrete che oggi mancano.
Non che le scosse che cominciano a scattare – Buenos Aires ha cancellato i controlli valutari e il peso è crollato del 26% in una sola giornata – siano tutte necessariamente negative e da attribuire alla Fed. La svalutazione del peso argentino vorrebbe stimolare la crescita e attirare investimenti diretti dall’estero. E numerosi analisti concordano che la forza dell’impatto prevedibile – rafforzamento del dollaro, aumenti dei prezzi all’importazione, fughe di capitali – potrebbe adesso essere “country specific”, differenziato a secondo del Paese, con predominio di circostanze nazionali visto che la rotta della Fed era stata telegrafata in anticipo.
Il vecchio adagio statunitense che tutta la politica è locale potrebbe insomma trasformarsi nella massima che lo può essere anche l’economia. Ma c’è un problema, foriero di squilibri, epidemie e non di individuali malattie. Nel panorama degli emerging markets, ammettono gli stessi analisti, paesi con caratteristiche abbastanza solide da affrontare con sicurezza anche un temporale sono rari, indeboliti dal gelo dell’economia globale, dal crollo delle loro commodities e dalla frenata della domanda cinese.
Nè mancano le micce capaci di far esplodere la polveriera: da tempo è sotto gli occhi di tutti – ma non per questo sotto controllo – il debito record in dollari accumulato da aziende e paesi fragili e che, rincarato, rischia di diventare un macigno insormontabile. Complice di tutto ciò, a sua volta, è la Fed: la protratta politica ultra-accomodante ha avuto l’effetto collaterale di generare ondate liquidità spintesi fino agli angoli più reconditi e rischiosi delle piazze globali a caccia di elusivi rendimenti. Ora potrebbero gonfiarsi a ritroso, uno tsunami in grado di travolgere tutto ciò che si frappone al ritorno sulle sponde statunitensi, dove un dollaro rafforzato e migliori rendimenti obbligazionari, con un’economia che seppur modestamente cresce, passa per una nuova terra promessa. Durante il conto alla rovescia verso la stretta i mercati emergenti hanno già sofferto la fuoriuscita netta di ben 500 miliardi di dollari, la prima in decenni.
La Fed non potrà quindi esimersi facilmente dal considerare le future ripercussioni, oltre che domestiche, internazionali. Una constatazione filtrata nel comunicato allegato al primo rialzo dei tassi: ha promesso di restare in guardia sugli sviluppi fuori dai confini. V’è da crederci, non foss’altro per ragioni egoistiche che ben conosce: nessuna nazione, neppure gli Usa, è un’isola immune da contagi nel pianeta economico-finanziario globale. La questione è piuttosto un’altra: se sarà uno scenario preoccupante – e da incubo per gli emerging markets – a prendere forma gettando all’aria i piani di tranquilla transizione alla normalità, se ne accorgerà in tempo? Di più: avrà la capacità e gli strumenti, convenzionali o straordinari, per evitare drammi?