Corriere della Sera, 19 dicembre 2015
Trovare un accordo grazie all’indaba
In cerchio dichiarando quello che si pensa, quello di cui si ha bisogno, quello su cui non si è disposti a cedere e le ipotesi di un terreno comune. L’Indaba degli zulu ha permesso al Cop21, la conferenza mondiale sul clima di Parigi, di superare l’impasse che lo stavano bloccando. Grazie a questa tecnica, sostenuta dal ministro Fabius, i delegati dei 195 paesi hanno firmato il documento finale: l’accordo. Che sia davvero la soluzione per il clima è ancora da verificare. Contava, però, che l’incontro si concludesse con scelte realizzabili nei prossimi anni. In pratica si è trattato di condividere le decisioni, nonostante interessi conflittuali, per concretizzarle. Obiettivo fondamentale in questioni di polis, come del resto l’Indaba è, ed era, usata dai capi tribù. Rasserenante se la sua applicazione consentisse meno liti condominiali, le carte bollate nelle diatribe familiari o di mangiarsi il fegato a ogni decisione che coinvolga cause e idee diverse, dal concedere il piercing ai figli a mettere la nonna in istituto. L’Indaba, va detto, è un radicale cambio di paradigma rispetto alle nostre abitudini. Non si tratta solo di mettersi a confronto. Lo stiamo vedendo, per esempio, nei dibattiti su maternità surrogata o sulle trivelle e il petrolio italiano: politici e cittadini, anche di buona volontà, riescono solo a contrapporre “verità” etiche o economiche. Risultato: lo stallo o leggi contestate. Cardini del metodo sono il senso di comunità e la presenza di facilitatori. «È fondamentale la loro abilità di cogliere il nucleo delle posizioni e di sottolineare tra tutte le opzioni quelle che creano meno conflitti, così accade tra i capi tribù e così hanno fatto a Parigi», dice Marina Calloni, sociologa allieva di Jurgen Habermas, filosofo tedesco e teorico dell’agire comunicativo.
Nell’Indaba tra i capi tribù ognuno ha una voce ed è impegnato nella ricerca di una storia comune secondo lo spirito dell’Ubuntu, un insieme di valori tra cui l’interdipendenza. O per dirla a modo nostro: non posso essere felice se le persone con cui sono relazione non lo sono. Obiettivo e metodo è identificare le idee che si combinano piuttosto che concentrarsi su quelle che dividono. In Sudafrica Indaba annuali sono organizzati per gestire le miniere, nelle università tra docenti e studenti e c’è persino l’Indaba fiscale. A Durban ogni anno si fa l’Indaba Design ed esiste anche un Indaba della musica. Incontri che mettono in comune competenze ed esperienze per produrre nuove idee. Si fanno Indaba familiari, come quello al capezzale di Mandela, per trovare l’accordo sulle cure. «L’Indaba ha radici nelle tradizioni di narrativa e poesia orale Xhosa e Zulu», spiega Vincenzo Matera, docente di Etno-Antropologia alla Bicocca di Milano. «I poeti e i narratori Xhosa colgono legami, convergenze, ma anche contrasti e divergenze fra le parti, a seconda delle questioni e del messaggio che intendono costruire».Non solo. «Stabiliscono paralleli tra situazioni del passato e del presente per poi ribaltare le prospettive e scoprire differenze e somiglianze, evidenziare contrasti e possibili accordi. Lo fanno per dirimere questioni comunitarie e familiari». Difficile quindi riportarlo nelle nostre case? «Ci sono le tradizioni millenarie e poi c’è la loro trasposizione nelle istituzioni contemporanee che le cambia», dice Marianella Sclavi, che ha insegnato etnografia urbana al Politecnico di Milano ed è consulente in diversi processi partecipativi e situazioni conflittuali (tra i suoi libri Arte di Ascoltare e Mondi Possibili). «All’Indaba e ad altri rituali, che comunque erano autoritari e patriarcali, si rifanno teorie occidentali che li hanno raffinati», dice. «Il Mit di Boston e Cambridge, con cui collaboro, se ne occupa dagli anni 40. Le discipline nate da questi studi sono ora strumenti suggeriti e usati in casi spinosi dalle leggi degli Stati federali. È il passaggio dall’assemblea a incontri basati sul confronto creativo». La prima basata sul dibattito, l’argomentazione e l’opposizione, perno della democrazia del Sette-Ottocento, che veniva considerata utile per prendere decisioni e che invece si incaglia. «La seconda non chiede opinioni», dice Sclavi. «Il facilitatore conduce le persone ad ascoltare invece che agitarsi per dimostrare che le altre tesi sono sbagliate, e porta nuove conoscenze. Nuove soluzioni, senza gerarchie». Marianella Scalvi lo fa nei cohousing milanesi. «I condomini non sono ancora entrati negli appartamenti ma da un anno s’incontrano. L’idea partecipativa, alla base di queste scelte di vita, non basta. Qui si sono dati il tempo per formarsi l’atteggiamento adatto a non sentire l’ego ferito se qualcuno ha opinioni contrarie». Anche per decidere su una caldaia la mutua indagine è più interessante della votazione democratica. Chiamiamolo Indaba, agire comunicativo o «mettere ponti, scavalcare muri», come fanno con i manager aziendali l’attrice Laura Curino ed Empatheia con percorsi formativo-teatrali, oppure Teoria U del Mit: l’approccio cambia completamente i dialoghi. «E trasforma le relazioni», dice Stefania Lattuille, che dalla professione di avvocato è passata a quella di facilitatrice. «Lo vedo nelle controversie anche in condomini molto popolosi. Il conflitto è fisiologico. Si tratta di non fossilizzarsi. Con il dialogo creativo abbiamo superato storie di eredità diventate cause che duravano da anni. Non è che le persone debbano diventare amiche, ma il tempo passato ad ascoltarsi le ha rese meno litigiose e più pronte alla soluzione che loro stessi hanno trovato». Così è stato anche sulla macellazione Lattuille ha «facilitato» un laboratorio tra comunità islamiche, ebraiche e Garante per la tutela degli animali di Milano.