Corriere della Sera, 19 dicembre 2015
Il grigio Rajoy si prepara a una grigia vittoria
Alla fine arriverà primo quest’uomo grigio, la barba grigia, il carisma di Paperoga, che chiude una campagna incolore quanto lui esibendo due sole macchie rosse: il berretto da Babbo Natale e il segno del pugno ricevuto sulla guancia sinistra da un contestatore minorenne. Alla fine arriverà primo Mariano Rajoy: «il nipotino di Franco» secondo la stampa internazionale; in realtà, un democristiano che ha fatto quel che la Merkel gli ha detto di fare.
Premurosa, l’altro giorno a Bruxelles la Cancelliera l’ha accarezzato sulla guancia colpita: se dopo la Polonia a Est dovesse perdere anche la Spagna a Ovest, l’altro Paese satellite, sarebbe un guaio. Le telecamere hanno letto il labiale di Rajoy: «Noi siamo primi, secondi il Psoe o i socialisti». «Vuoi dire Podemos?». «Sì, Podemos». «Secondi?» ha chiesto incredula Angela.
Manuela Carmena, la nuova alcaldesa (sindaco) di Madrid, è accusata di voler vietare il Natale? E allora Rajoy chiude il suo giro di Spagna con la «Cena de Navidad», una festa natalizia qui nella capitale. L’ingresso costa 20 euro, include il fazzoletto azzurro del partito, la maglietta azzurra, il porta-caramelle azzurro riciclabile come regalo ai nipoti. L’età media è alta. Padiglione 5 della Fiera, tra l’aeroporto e il campo di allenamento del Real. Il premier si è ripreso bene dal gancio incassato nelle vie di Pontevedra, la città dov’è cresciuto: «L’odio non mi fermerà. Quattro anni fa la Spagna era in ginocchio; ora è in piedi. C’è il rischio di una vittoria dell’estrema sinistra, che manderebbe il Paese in rovina. Noi stasera siamo qui per far onore al motto che ci siamo dati: la Spagna seria».
Nella settimana finale i sondaggi sono vietati. L’ultimo pubblicato da El Pais dà Rajoy al 25%. Le voci che girano nei giornali e le sensazioni che si respirano alla «Cena de Navidad» collocano il premier molto sopra. Ma arrivare primo non significa vincere le storiche elezioni di domani, che segnano la fine del bipartitismo spagnolo. Nel novembre 2011, nei giorni della caduta di Berlusconi, il Partito Popular ottenne il 44% e la maggioranza assoluta dei seggi. Stavolta avrà bisogno di alleati per governare. Rajoy non esclude un’intesa con i socialisti, purché si levi di torno il segretario Pedro Sanchez, che in Tv l’ha insultato definendolo «una persona indecente»; ma la grande coalizione non fa parte della cultura politica del Paese, la numero 2 del Psoe, la «presidenta» dell’Andalusia Susana Diaz, l’ha già definita «un’idea patetica, da sconfitti».
Gli unici con cui i popolari potrebbero accordarsi sono i Ciudadanos, i Cittadini di Albert Rivera, che ieri si è detto pronto ad astenersi per far nascere un governo Pp di minoranza; ma senza Rajoy alla testa. Il premier del resto ha impostato tutta la campagna contro il giovane emergente, e nelle urne finirà per ridimensionarlo. Rivera ha chiesto un intervento Nato in Siria; lui ha evitato di incontrare Hollande per non prendere impegni. Rivera intende accorpare i comuni al di sotto dei 5 mila abitanti; lui lancia la campagna «mi pueblo no se cierra», il mio paesino non si chiude. Rivera si presenta come il nuovo; lui lo definisce «un prodotto di marketing, con un quarto d’ora di storia». Rivera ha riempito i teatri delle grandi città; Rajoy ha girato i villaggi della Spagna profonda, cucinato piatti tipici, giocato a domino con gli anziani, preparato il caffè alle signore. Si è fatto vedere a Barcellona solo giovedì sera, poi è stato a Valencia, ora è qui a Madrid: «Noi vogliamo difendere l’identità nazionale. Noi vogliamo una Spagna unita, nel rispetto della monarchia e della Costituzione». Parte il coro: «Yo soy español, español, español!».
La campagna elettorale in fondo gliel’hanno fatta i separatisti. Con il No all’indipendenza di Barcellona, Rajoy si è guadagnato la riconoscenza degli altri spagnoli. I secessionisti sono come sempre i ricchi, in questo caso catalani e baschi. I poveri restano attaccati alla mammella dello Stato. E la Catalogna, con la volontà di dichiararsi nazione, con la pretesa di imporre la propria lingua ai «charnegos» venuti da fuori, è vista ormai con ostilità dalla Spagna cattolica, eterna, conservatrice, che stasera intona l’ Adeste Fideles e poi Noche de paz, Campana sobre campana, El pequeno tamborilero e tutti i classici natalizi.
Al tavolo con il leader – empanadas, jamon, insalata di pasta – c’è la donna che ha tentato invano di prendergli il posto: Esperanza Aguirre, ala destra del partito. Non c’è riuscita perché il Pp ha un tratto militare. Il capo comanda e gli altri obbediscono; e Rajoy è più duro di quanto sembra. Un fondista. È sopravvissuto a due sconfitte consecutive, nel 2004 e nel 2008, contro Zapatero non contro Churchill. Ha resistito allo scandalo Barcenas, il tesoriere al centro di un vorticoso giro di fondi neri. Ha rotto con i suoi mentori: l’ex premier Aznar e l’ex arcivescovo di Madrid Rouco Varela, che gli rimproverano una gestione economicista, poco attenta ai valori occidentali e cristiani. Lui è un pragmatico. Ha governato come un notaio.
In effetti, Rajoy è un notaio. Di serie B: «Registratore di proprietà». Nato a Santiago de Compostela, terra di pellegrinaggi. Spagna atlantica, fiera, zitta. È galiziano come Franco, ma la sua famiglia non è franchista: il nonno scrisse con Alexandre Boveda lo statuto autonomo della Galizia; il regime lo perseguitò e gli tolse la cattedra; Bodega fu messo al muro. Il padre invece fu un giudice disciplinato. Mariano si è sposato tardi, il che ha alimentato a lungo voci sulla sua virilità; i tre figli sono ancora piccoli. Di Franco ha la «retranca» gallega: un misto di astuzia sfuggente, ironia cinica, disincanto, accortezza. Parte del Paese nel segreto dell’urna lo appoggerà per assecondare un richiamo all’ordine, anche perché l’economia si sta rimettendo in moto.
Qui la crisi ha colpito in modo drammatico, più ancora che nel resto d’Europa. La Germania, che possiede la maggior parte del debito pubblico spagnolo, ha salvato le banche facendo arrivare 40 miliardi di euro; ma 150 mila famiglie hanno perso la casa. In 4 milioni sono rimasti senza lavoro. Ora un milione l’ha ritrovato; ma sono quasi tutti contratti a termine. Il Pil è salito del 3,4%, ma cresce come cresce la Spagna: in modo diseguale, con la forza di un popolo dinamico e amabile, pronto a chiudersi in tristezze e malinconie. La disoccupazione resta la più alta d’Europa. Il premier stasera assicura che «la priorità è mettere i nostri giovani al lavoro». La base madrilena, quasi tutta in quiescenza, applaude.
Lui pure ha 17 anni più di Sanchez, 23 più di Iglesias col codone da «tanguero», 24 più di Rivera, 30 più di Garzon di Izquierda Unida. «Dove sono i ragazzi? Sapete che servono i ragazzi!» si affanna il servizio d’ordine, per organizzare la foto da mandare ai siti. I commensali sciamano sazi e ottimisti. A Plaza Mayor, in centro, tra le giostre e le luminarie, i senzatetto vanno a dormire sotto i portici, e non solo per stare un po’ al caldo. L’ex sindaco Ana Botella, la moglie di Aznar, aveva tentato di mandarli via. Loro si sono rifiutati: vogliono restare lì, nel cuore del Paese, per ricordare a tutti quanto sia ancora duro oggi essere spagnoli.