il venerdì, 18 dicembre 2015
Suzanne Lenglen, la divina del tennis raccontata da Gianni Clerici
COSÌ MI INNAMORAI DI UNA TENNISTA–Gianni Clerici
Il mio amore, per Suzanne, nacque al cimitero. Vado spesso a visitare i cimiteri. Ciò mi permette di pensare a vite passate, alla vanità della Fama, mi sollecita l’immaginazione, e la simpatia per le biografie, magari immaginarie come quelle di Marcel Schwob.
Quella volta, nel 1982 circa, la mia visita al Père Lachaise avvenne in seguito al rifiuto di alcuni famosi giottori (giornalisti-scrittori) francesi e miei amici, di tentare una biografia di Suzanne Lenglen, la più grande tennista esistita (mai sconfitta se non una volta, per un ritiro che, lo scoprii, fu causato da tosse canina).
Mi dissero di no Olivier Merlin e Denis Lalanne. Mi informai di dove fosse sepolta, e una mattina mi recai al Père Lachaise. Un gentile signore, che recava un mazzo di rose per Marcel Proust, mi indicò un sepolcro in marmo scuro, scheggiato, come se qualcuno avesse cercato di infrangerne il coperchio con un martello.
Mi inginocchiai, rivolsi una preghiera, meglio una timida frase d’amore a Suzanne, e presa la strada del Roland Garros, salii allo studio di Philippe Chatrier. Philippe era allora il Presidente della Fédération française de tennis dopo esser stato per un anno il mio partner di doppio. La trasformazione in personaggio pubblico non l’aveva cambiato, e mi diede subito assicurazione che avrebbe fatto in modo che il sepolcro venisse riparato.
Aveva, anche, appeso sopra la scrivania un ritratto di Suzanne, eseguito dalla sua avversaria Helen Wills, la comprimaria di quello che fu chiamato, nel febbraio del ’26, il Match del Secolo e, pur negandosi alla mia richiesta di acquisto, mi giurò che il prossimo secondo Centrale del Roland Garros, così come uno dei Viali d’accesso, sarebbero stati dedicati a Suzanne, che la morte subitanea, immediatamente precedente la Grande guerra, il 4 Luglio del 1938 aveva indotto i più a dimenticare.
Simile prologo mi spinse, non appena rientrato a Milano, ad una visita presso Erich Linder. Era, il Signor Linder, il più importante agente non solo italiano, ma europeo. Fuggito dalla Polonia, aveva trovato un posto di editor da Mondadori, si era poi messo in proprio e, grazie ai miei zii adottivi Bassani e Soldati, aveva accettato anche me, definendomi «L’ultimo dei miei clienti».
Dovetti spiegare al Signor Linder chi fosse Suzanne, e aggiunsi che nessuno, in Francia, aveva pensato a dedicarle una biografia.
«Chissà che interesse solleverebbe allora in Italia» osservò lui, per iniziare a scoraggiarmi. E, poiché aveva un’ottima cultura, continuò. «Non sarebbe meglio, mio caro bambino, fare qualcosa di simile alla Ricerca del Baron Corvo di Symons, e incontrare una cinquantina di persone, magari importanti, tra quelli che hanno conosciuto questa tennista, come ha detto che si chiama?».
Per una caratteristica che è divenuta costante, non accetto i buon i consigli, utili, probabilmente, a migliorare la media dei frequenti insuccessi che ho raccolto nel corso della mia vita.
Comunicai allora a Linder la mia decisione di ripercorrere i sentieri di Suzanne durante la sua vita, dalla natia Francia alla Grecia, dall’Inghilterra agli Stati Uniti.
Ottenni una benevola licenza biennale di tre mesi dal mio direttore del Giorno, Italo Pietra, un altro dei miei Benettori (Direttori Benefattori), e iniziai le conversazioni con chi aveva conosciuto Suzanne Lenglen, sui campi e soprattutto nella vita privata.
Scoprii così che era forse stata la prima di un gruppo di giovanette che erano state avviate al tennis da padri che ambivano a riscattare la propria vita mediocre con i successi delle figlie.
Visitai la sua villa a cento chilometri dall’abitazione parigina e il successivo appartamento a Nizza, dove trascorse gli anni della Prima guerra mondiale.
Mi recai, viaggio più breve, a Bordighera, primo luogo nel quale fosse esistito un campo italo-inglese di tennis, per aver memoria del suo esordio, a soli tredici anni, nel 1912. Incontrai, a Londra, alcune anziane signore, avversarie a Wimbledon nel corso dei suoi sei successi in quel torneo, le cui gesta avevano addirittura spinto all’ampliamento dello stadio, e alla costruzione di un nuovo Centre Court.
Partii infine per un lunghissimo giro negli StatiUniti, seguendo quasi da trekker il tragitto tra più di venti città, nelle quali Suzanne si era esibita, nel 1926. Essa fu infatti la prima professionista nel tennis, prima addirittura degli uomini che vi giunsero soltanto cinque anni dopo, col grande Big Bill Tilden, concorrente narciso battuto in notorietà: forse non nella sua bisessualità, allora più segreta di quanto non sia oggi, addirittura vietata, che la ebbe forse tra le sue fila, come credetti di scoprire (ma non scrissi) durante una visita alla sua partner di doppio, Diddie Vlasto, che mi accolse in una sontuosa villa di Atene, nella quale era stata Dama di compagnia della Regina.
Ero così giunto alla fine dei miei viaggi, dei miei, li conto, settantuno incontri, e non mi restava che trasformare ricordi e interviste in un testo che consegnai a Linder.
Dopo qualche mese ebbi conferma che il Grande Agente non si era sbagliato.
Nessuno, in Italia, voleva la biografia che un ignoto giornalista sportivo aveva scritto su una dimenticata tennista francese.
Non mi restava che tentare la strada della Francia, e provai l’umiliazione di chi non riesce a vendere gli elettrodomestici, sinché la biografia non fu accettata da un semisconociuto editorello, Rochevignes, al quale ancora sono grato.
Il volume, riccamente illustrato da foto che gratuitamente mi offrì il grande Jacques Henry Lartigue, suscitò qualche diffidenza nazionalistica; com’era mai possibile che un ignoto italiano si fosse permesso di scrivere sulla più grande tennista non solo francese, ma mondiale? Le recensioni giunsero solo da qualche collega del tennis, e insomma il libro ebbe breve vita.
La mia vicenda con Suzanne continuò tuttavia grazie all’amicizia di un regista di Telepiù, Sergio Velli, che ci condusse a un documentario, e a miei successivi tentativi di fare del soggetto una commedia, che, nelle sue quattro versioni, fu messa sotto contratto e non rappresentata al Teatro Grace Kelly di Montecarlo, per un intervento di sua Eccellenza Il Principe Ranieri Terzo.
E, in seguito, in due diverse rappresentazioni, una alla Biennale di Venezia, un’altra al Belli di Roma, propiziata da Rodolfo Di Giammarco, che non ebbero seguito.
Aveva dunque ragione quel grande agente di Linder ? Avrei dovuto spendere meglio il mio tempo dedicandomi a match di calcio o di basket, sport ai quali mi spinsero a dedicarmi i miei direttori?
Forse non del tutto, se la Divina fu ristampata in Italia da Corbaccio prima, da Fandango poi. E soprattutto se venne copiata una volta in Inghilterra, l’altra negli Stati Uniti, da due autori ben più noti di me, che evitarono addirittura di citarmi tra le fonti. Secondo l’antico detto: «Meglio derubati che ladri».
Dopo questo elenco di informazioni, non posso non ritenermi più che giustificato dal mio amore per Suzanne, e dai mesi spesi con lei.