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 2015  dicembre 18 Venerdì calendario

Tanti soldi, molto potere ma un solo testicolo. Ritratto di Franco, il generale che amava il totocalcio ma non il sesso

Le più impressionanti sono le nonnette. Donnine dall’aria incriccata che, hop!, vedi tendersi di colpo nel saluto fascista davanti alla tomba di Sua Eccellenza. È il gesto ginnico d’un secondo. Poi tornano curve, mansuete e pie sotto l’acconciatura turchiniccia, rimessa in piega per l’occasione. A strillare ci pensano gli uomini: España una, grande y libre! Francisco Franco, presente! Presente fino a un certo punto. A quarant’anni dalla dipartita del Caudillo invicto, 20 novembre 1975, le commemorazioni sono sparute, dimesse. Un po’ per ovvie ragioni di decenza, un po’ perché gli spagnoli sono stufi di avvitarsi sul passato, e un po’ per via delle nuove restrizioni securitarie imposte dalla ley mordaza, la discussa legge bavaglio voluta da Rajoy, che, tra l’altro, imbriglia le manifestazioni di piazza. 
Stamattina, nel mausoleo funebre di Los Caídos, cinquanta chilometri da Madrid, gli inconsolabili saranno non più di trecento. Giornalisti spagnoli, neanche mezzo. Non è venuta nemmeno una habituée come Carmen, la nietísima, la nipotissima del Generalissimo che è oggi la più gossipata della schiatta. Un fotografo del quotidiano sportivo Marca, qui per arrotondare con qualche scatto di cronaca, mi segnala tra i devoti in bomber alcuni giovani ceffi degli Ultras Sur, gli oltranzisti del Real Madrid. Ma a dominare sono i gerontofranchisti. Entrando nella basilica – un gigantesco loculo scavato nella montagna – aiuto la badante di uno di questi irriducibili a trascinarne la carrozzella vuota giù da una scalinata. Lui ci segue trasportato a braccia da un paio di sodali. Si radunano le ultime energie senili per far scattare il braccetto teso, emettere slogan guerrieri o intonare Cara al sol, l’inno dei falangisti. Anche l’inventore delle camicie azzurre, José Antonio Primo de Rivera, è seppellito qui. Morì lo stesso giorno di Franco, suo ingombrante alleato, ma trentanove anni prima e fucilato dai repubblicani.
La messa per entrambi dura quasi due ore. Una cerimonia come non se ne confezionano più. Avvolta d’incenso, la chiesa sembra il porto di Ostenda nella nebbia. Il freddo punge. Ci si stringe nei paltò. Dalle lesioni sulle volte l’umidità gocciola facendo blin-bleng nei secchi di metallo. L’omelia è ossequiosa, ma sfiorando il tema della Guerra civile il celebrante è diplomaticamente bipartisan: «Preghiamo per i morti di tutte e due le fazioni». Dall’abside si levano canti angelici: sono i bambini dell’internato benedettino, tutti in divisa blu. Uscendo dalla funzione mi imbatto in un terzetto dall’aria vagamente sinistra: due pope ortodossi e una donna anche lei in palandrana nera. Sono serbi, in missione speciale per rendere omaggio ai loro connazionali caduti sotto le insegne franchiste.
Sul sagrato partono i coretti. Due agenti della Guardia civil intervengono con un certo garbo per temperare gli entusiasmi. «Perché si stava meglio allora?» dice un anziano aficionado con il bavero della giacca tempestato di mostrine, «Perché non c’erano comunisti, massoni, sette sataniche, capitalismo selvaggio. E non si buttavano i bambini dalla finestra». Allude a un recente fattaccio di nera. Guardando storto le forze dell’ordine, i più giovani si vittimizzano: «Le bandiere dei separatisti catalani sono tollerate, invece le nostre vengono proibite. E poi perché il pugno chiuso sì e il braccio teso no?» protesta Hugo, 19 anni.
Ma l’estrema destra spagnola è una galassia frantumata, litigiosa e dal peso elettorale pressoché allegorico. Nemmeno i livori innescati dalla crisi o dall’immigrazione sono riusciti a irrobustirla. Siamo nell’ordine di un 2-3 per cento di voti che a ogni scrutinio importante rifluiscono disciplinatamente nel paniere del Partido Popular, ora al governo, ma dopo le politiche di domenica si vedrà. Sotto marchi tipo Plataforma, España 2000 o Alternativa española, i postfalangisti – o comunque li si voglia chiamare – sono visibili tutt’al più a livello locale, con un ventina di consiglieri comunali smollicati qua e là sul territorio. Per il resto, l’ultraderecha riesce a far parlare di sé solo con qualche pestaggio o rissa da stadio.
Il Caudillo amava moltissimo il fútbol ma anche il Totocalcio, che da queste parti si chiama la Quiniela e fu introdotto proprio da lui. Nel maggio del 1967, a campionato spagnolo concluso, Franco fece bingo azzeccando tutti e dodici i risultati di quello italiano. E un milione di pesetas atterrarono sul suo conto in banca, che pure non boccheggiava. Persino gli storici meno indulgenti verso il regime hanno sempre sostenuto che il Generalissimo si mantenne al di sopra di qualsiasi tentazione cleptocratica. Ma oggi anche quella convinzione comincia a scricchiolare. Negli archivi, lo studioso Angel Viñas ha appena scovato documenti perlomeno imbarazzanti. Le carte dimostrerebbero che Franco aveva cominciato ad arricchirsi con maneggi truffaldini già all’epoca della Guerra civile. Come? Intascando i guadagni delle corpose partite di caffè regalate alla Spagna nazionalista dal dittatore brasiliano GetúlioVargas. O annettendosi donazioni destinate alla ricostruzione di Toledo, agli ascari marocchini e naturalmente agli immancabili orfanelli. Totale: 34 milioni di pesetas, stimati oggi in oltre 300 milioni di euro. Bella sommetta. Perché metterla da parte con tanto anticipo? «Forse perché temeva l’esilio. Fino al 1943 Franco non si sente sicuro al comando. A preoccuparlo non è la sinistra, totalmente annientata, ma i generali monarchici. Volevano un re, non un dittatore» spiega Viñas presentando il suo nuovo libro – La otra cara del Caudillo – all’Ateneo di Madrid. E in seguito? «Non si può dire che Franco abbia rubato, ma perché le leggi se le faceva da sé» continua Viñas. «Fino adesso ho scoperto almeno 52 decretos reservados mai pubblicati sulla Gazzetta ufficiale. Il fondamento ultimo del diritto era lui. Si applicava cioè il Führerprinzip. O meglio il Francoprinzip. Non fu un regime autoritario come pretendono i revisionisti. Fu una dittatura».
All’unica figlia Carmen e ai sette nipoti el Jefe de Estado lasciò in eredità un ragguardevole pacchetto di imprese, palazzi, ville, tenute. Oggi, acquattato dentro una ragnatela di società in attivo per 150 milioni di euro, il clan vive di operazioni immobiliari, affitti, garage e maxi-pareheggi nei centri storici. Non sarà capitalismo eroico, però rende.
Che i conti di Francisco Franco non fossero specchiati nulla toglie all’austerità del personaggio. Le sue abitudini erano effettivamente frugali. Non fumava, beveva pochissimo, per tutta la vita portò le stesse massicce scarpe di fabbricazione spagnola, del genere che dura. Ma tra i despoti del Novecento fu il più indecifrabile. La sua psicologia è una serratura della quale non si è ancora trovata la chiave. Astuto, laconico, diffidente, temporeggiatore sino a snervare. Un amico e decano del giornalismo spagnolo, Manuel Marlasca sr., mi ricorda la storiella secondo cui sulla scrivania del Generalissimo le scartoffie stagnavano divise in due mucchi: «Da una parte le questioni che il tempo ha già risolto, dall’altra quelle che il tempo risolverà». Il Caudillo era un compendio della cosiddetta retranca, la schiva furbizia dei villici galiziani che in Spagna è proverbiale. Il gallego – dicono – è uno che quando lo incontri per le scale non riesci mai a capire se stia salendo o scendendo.
Senza essere un grande stratega. Franco vinse la Guerra civile, uscì indenne dal Secondo conflitto mondiale e col tempo riuscì a farsi riammettere nella comunità internazionale, soprattutto grazie allo sponsor statunitense che vedeva in lui un provvidenziale argine anticomunista. Entrò all’Accademia militare a 14 anni. Durante le campagne d’Africa fu un soldato valoroso e inflessibile; nel mattatoio spagnolo un condottiero abile e pervicace. Ma una volta alla guida della Nazione si distinse per una torpida opacità.
Non ebbe mai una politica. E lo riconosceva, facendone un motivo di vanto: «Non sono un politico. Non ne capisco nulla. È questo il mio segreto». Oppure, sornione, consigliava: «Fate come me, non immischiatevi in politica».
Per lui – ha notato il biografo Paul Preston – il potere di governo non era che l’estensione logica dell’autorità militare. L’idea che potesse esistere un’opposizione gli riusciva sinceramente incomprensibile. Ogni dissenso era equiparato a un ammutinamento. E c’è da credere a chi lo racconta come un leader dall’indole soave, per niente incline alla crudeltà o al gusto della violenza. Franco fece sterminare, imprigionare, condannare al lavoro forzato un bel po’ di gente, ma con l’assoluta naturalezza di chi si sente chiamato a una superiore missione di palingenesi e pacificazione. Dal ’45 guidò la Spagna come un monarca intransigente però abulico. Con la scaltra noncuranza del dejar hacer, il lasciar correre, non si intrometteva nell’operato dei ministri. Salvo poi farli saltare nei rimpasti con i quali bilanciava gli appetiti delle varie componenti del regime – cattolici, monarchici, falangisti, tecnocrati, aperturisti o immobilisti – compiacendone adesso una, ora un’altra, e neutralizzandole tutte.
Con ben altro trasporto si dedicava alla caccia o alla pesca d’altura, passioni alle quali non rinunciò nemmeno quando gli acciacchi della vecchiaia glielo avrebbero reso ostico. Con esiti meno brillanti praticò il tennis, il golf e la pittura di genere. Presto divenne addicted del calcio in tv. Dicono che le lunghe ore trascorse in poltrona davanti alle partite dei Mondiali di Germania ’74 abbiano contribuito alla prima devastante tromboflebite.
Leggeva poco, ma scrisse tre libri: un memoir sulle esperienze guerresche in Africa; un romanzo autocelebrativo, Raza, che sarebbe diventato un famoso filmone di propaganda; e un violento pamphlet antimassonico. Non è escluso che l’odio cospirazionista di Franco verso la massoneria fosse la reazione di un amante respinto (da giovane aveva bussato alla porte delle Logge senza successo); ma a fomentarlo furono anche i complicati rapporti familiari. Perché era massone l’invidiato fratello Ramón, aviatore di successo, dapprima fanatico repubblicano poi riciclatosi nelle fila dei golpisti. Ma di simpatie massoniche era soprattutto il turbolento papà Nicolás, cioè l’uomo in opposizione al quale Franco avrebbe modellato la propria personalità. Ex militare, troppo anarcoide per lasciarsi incarcerare dentro un’uniforme, don Nicolás Franco Salgado Araujo era un tipo manesco, tutt’insieme mangiapreti, giocatore, sbevazzone e sottaniere. Considerava Francisco il peggio riuscito dei tre figli maschi. Gli si rivolgeva chiamandolo Paquita, perché il ragazzino aveva occhioni da cerbiatta, la vocina in falsetto e un’apariencia de tontito, l’aria fessacchiotta. Esasperato dalla vita provinciale, il genitore mollò moglie e prole in Galizia per scapparsene a Madrid dove avrebbe condotto un’esistenza bukowskiana, trovandosi una concubina. Quando nel 1916 Francisco fu gravemente ferito e dato quasi per spacciato in Nordafrica, Nicolás si ritrovò con la moglie per andargli a far visita nell’ospedale militare di Ceuta, ma una volta sul posto trascorse tutto il tempo bisbocciando nei lupanari marocchini. Successivamente, l’ascesa del figlio lo lasciò allibito. Mai riuscì a capacitarsene. Guardando i cinegiornali che ne magnificavano le gesta, si stroppiciava gli occhi tra ilarità e sconcerto.
Disprezzo e vergogna per il padre, identificazione nella madre religiosa e succube. Sarà pure psicoanalisi prêt-à-porter, ma chi si è impegnato a decrittare il Caudillo nell’intimità ci ha visto un complesso edipico da manuale. «Pur di non assomigliare al padre, si sarebbe emasculato con le proprie mani» ritiene la giornalista Pilar Eyre che, un paio d’anni fa, nel libro Franco confidencial, si avventurava in quella terra incognita che fu la vita privata del Caudillo. «Il sesso lo disgustava. Gli sembrava qualcosa di insano, oscuro, che sottraeva potenza agli uomini e causava malattie». Durante gli anni dell’apprendistato militare, Franco soffrì il nonnismo, «ma non mise mai piede in un bordello» assicura Eyre. «Si masturbò per la prima volta a trent’anni». Al matrimonio giunse vergine come sua moglie. E, consumata o meno, la prima notte di nozze si concluse con un’alzataccia all’alba per recitare il rosario. Con la religione il Generalissimo ebbe un rapporto di pubblica osmosi (il concordato del 1953 stabiliva che fosse lui a nominare i vescovi) che però nella quotidianità assumeva più che altro i tratti di una superstizione. Fino alla morte, Franco non si separò mai un minuto dalle reliquie di Santa Teresa d’Avila, il suo brazo incorrupto conservato in un guanto d’argento e pietre preziose. Ma le messe lo annoiavano solo un po’ meno dei consigli dei ministri. Sedute fiume dalle quali fu visto un’unica volta alzarsi diretto alle toilette. Il suo fenomenale controllo della vescica è assurto a leggenda.
In particolareggiate conversazioni con l’urologo personale del Caudillo, Pilar Eyre sostiene di aver scoperto che Franco era monorchide, ossia provvisto di un solo testicolo; l’altro l’aveva perso in battaglia. La menomazione non gli avrebbe impedito di fare sesso né di procreare, ma ovviamente di certe cose bisogna aver voglia. Non bastasse, il Generalissimo sarebbe pure stato afflitto da una malformazione del prepuzio che gli rendeva gli accoppiamenti specialmente penosi. Quando gli proposero di operarsi declinò con l’argomento: «Quel che Dio ha fatto non sta all’uomo modificarlo».
Nell’ultima fase, pensando alla successione, Franco rassicurò gli spagnoli garantendo che avrebbe lasciato tutto atado y bien atado, legato e ben legato. Ma se quella concezione bondage del potere non gli sopravvisse fu anche a causa sua. Alla fine degli anni Cinquanta, liberalizzando l’economia dopo la fallimentare epoca autarchica, il Caudillo si era illuso che il capitalismo potesse convivere senza scossoni con l’assenza di diritti politici e civili, la censura, il nazionalcattolicesimo. Però col suo inevitabile carico di ismi – consumismo, edonismo, permissivismo – il boom corrose le basi sociali e culturali del regime. E alla fine ad abbatterlo fu principalmente il neo-benessere dei ceti medi.
Mentre le associazioni per la memoria storica manifestano a Madrid rammentando i centomila morti lasciati dal franchismo nelle fosse comuni, vado a dare un’occhiatina in Plaza de Oriente. È la spianata accanto al Palazzo Reale dove il Caudillo, pessimo oratore, si rivolgeva alle moltitudini. Tra turisti e piccioni, a ricordare Franco c’è solo un artista di strada. Si chiama Ruben. Viene dalla Bulgaria. Fa la parodia del dittatore esibendosi nascosto dentro una fantasmatica divisa militare bianca, con tanto di cappello, ma priva di testa. Lo spettacolino gli frutta dieci euro al giorno. Che rispetto ai tenori bulgari è nada mal, mica malaccio.