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 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

Festa di compleanno con Aldo Biscardi

Clint Eastwood, Gene Hackman, Helmut Khol e anche Giacinto Pannella detto Marco. Cosa hanno in comune questi big del cinema e della politica? Facile: sono tutti compagni di “classe” di un altro fresco, freschissimo ottantacinquenne, ancora oggi felice prigioniero dell’occhio della telecamera con il suo “Processo”, arrivato alla 36esima edizione consecutiva, roba da Guinness. Aldo Biscardi da Larino, provincia di Campobasso, dove risulta nato il 26 novembre 1930. Arriva prima del previsto all’appuntamento con il Guerino. Al portiere dell’Hilton dice che sta aspettando un collega. Sorriso smagliante, passo deciso, il capello al carotene pettinato come da copione. In mano ha due fogli e me li consegna: uno contiene l’elenco di tutte le vallette del Processo. Nell’altro, i nomi dei cantanti che hanno dato voce alla sigla della sua trasmissione, tra cui spiccano quelli di Diana Ross, Gianna Nannini e Umberto Tozzi. Ci sediamo nella hall dell’elegante albergo romano, a due passi dall’abitazione dell’Aldo nazionale. «Qui sono di casa, ci vengo tutti i giorni». Il clima, effettivamente, è familiare. Salutato da tutti, ricambia con soddisfazione e alto gradimento. E quando è il momento di mettersi in posa per brindare al traguardo di vita raggiunto, è più che mai raggiante. Brindisi, fetta di torta assaporata con gusto e via coi ricordi. Poche le incertezze, minime le smemoratezze. La voce a volte si fa un sussurro, gli occhi luccicano.
15 settembre 1980, sulla Terza Rete, alle 22.40, nasce il Processo del Lunedì.
«La mia creatura, arrivata alla 36esima edizione. Oggi andiamo in onda su Sport 1, un canale del digitale terrestre che riesce a coprire tutta l’Italia. Si vede pure a Larino. Tempo fa mi ha telefonato mio cognato per dirmi che finalmente riesce a vedere il Processo».
Come è nata l’idea della trasmissione?
«Devo molto all’allora Direttore generale della Rai Biagio Agnes. Lui mi seguiva dai tempi in cui scrivevo per Paese Sera. C’ero arrivato nel 1956 dopo i primi anni a Il Mattino di Napoli, succedendo poi ad Antonio Ghirelli nella direzione delle pagine sportive. Qui avevo iniziato a concepire l’idea del Processo: sulla carta mettevo a confronto opinioni diverse sullo stesso argomento, sempre legato a temi del campionato. Il gioco funzionava».
Quindi?
«Nel 1977, per una televisione privata romana che si chiamava Pts (People Television Service), iniziai a presentare Terzo tempo dall’Olimpico, in onda il lunedì sera. L’esperimento andò bene, due anni dopo mi chiamò la Rai e mi affidò la cura dei programmi sportivi della neonata Terza Rete».
I tempi erano maturi.
«Rai Tre, anche se allora non si chiamava così, era ai primi passi. C’era un palinsesto da riempire, desiderio di sperimentare e qualche barriera in meno da superare. Ma l’input decisivo fu quello di Agnes».
Che cosa fece in concreto?
«Mi chiamò. “Ti devo parlare: vieni a casa mia”. Andai. Fu lui a dirmi papale papale di trasformare in trasmissione tv la rubrica che facevo ai tempi di Paese Sera. Il Processo del Lunedì è nato così».
È vero che nella scelta del titolo del programma lei è stato ispirato da Gianni Rodari?
«Come no? Nella prefazione che fece a un mio libro sulla storia del giornalismo sportivo, scrisse di me: “... parla di calcio come a un processo”. E poi io ho una laurea in giurisprudenza. Il mio professore di procedura penale è stato Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica. Tra le compagne di studio c’era quella che sarebbe poi diventata sua moglie, la bellissima Vittoria. Quindi l’ambientazione non poteva che essere quella di un tribunale».
Il Direttore Agnes le dà il via e lei?
«Io francamente avevo paura. La mia esperienza televisiva era limitata e il programma rappresentava comunque una novità assoluta. Tuttavia avevo le idee chiare e per questo feci un patto con Biagio: “Solo tu puoi mettere becco sulla trasmissione, nessun altro”. Mi disse di stare tranquillo. E mantenne la parola».
Nelle prime edizioni lei non conduce. Perché?
«Ho preferito prima vedere come andava la macchina. E la cabina di regia mi sembrava la collocazione più giusta, lasciando la conduzione ad altri colleghi».
Perché il radiocronista Enrico Ameri come presentatore e non un volto televisivo?
«Quella fu una bella intuizione. Mia. Ameri era una novità assoluta in video, ma aveva profonda conoscenza della materia calcistica e grandissima credibilità. Poteva essere un motivo in più di curiosità, utile per attirare ancora più pubblico».
E poi la presenza della valletta, una costante nel Processo.
«Il volto femminile ci voleva per “decalcificare” la trasmissione e intercettare una fetta maggiore di pubblico. Pensai per la prima edizione alla figura di una sportiva, dalla bella presenza e che avesse delle capacità giornalistiche. L’identikit perfetto di Novella Calligaris, ex campionessa di nuoto, medaglia d’argento alle Olimpiadi nel 1972 e collaboratrice della Rai. Oltre che essere una bellissima donna».
Come era strutturato quel primo Processo?
«Lo schema era semplice. Si partiva con una scheda tecnica curata dalla redazione – in Rai Carlo Nesti, più tardi altri colleghi negli altri circuiti – e da lì iniziava il dibattito più o meno acceso con gli ospiti. C’era una sorta di tesi di accusa e una di difesa, con la presenza fin da subito della moviola. Alla fine, un’apposita giuria emetteva il verdetto, come in un processo vero e proprio».
Quando c’è stato il boom?
«Con il Mondiale del 1982, quando mi inventai il Processo ai Mondiali. Chiesi a Biagio Agnes il collegamento con Piazza del Popolo a Roma. Lui mi chiese se ero per caso impazzito, ma alla fine si convinse. Facemmo dei numeri straordinari. E Marina Morgan, che era la presenza femminile di quella stagione, fu portata in trionfo dai tifosi. Qualcuno approfittò pure per toccare con mano quanto fosse bella. Mi ricordo che era scioccata, poverina».
1982-83, al posto di Ameri c’è Marino Bartoletti e lei sta ancora in regia: non era convinto del successo?
«Ero convintissimo del mio Processo. Apparivo sempre più spesso, con collegamenti dalla regia. Dall’edizione successiva ho iniziato a condurre e non mi sono più fermato. Sono diventato la costante, così era necessario che cambiasse la partner femminile. Ogni anno una novità, a parte rare eccezioni».
Che ci dice delle tantissime donne avute al suo fianco?
«Parto dall’attuale. Si chiama Georgia Viero ed è la figlia della ex segretaria di Bergoglio quando era in Argentina. Mi ha raccontato tutto di questo Papa che strizza l’occhio a sinistra».
A proposito di Papi, non tutti sanno che lei ha pubblicato un libro su Karol Wojtyla.
«Nel 1979. Titolo: “Il Papa dal volto umano”, 18 edizioni. Grazie ai diritti mi sono costruito una casa in campagna. E di recente ho scritto il testo della canzone “Francesco d’Argentina”, dedicata all’attuale Pontefice».
Torniamo alle sue vallette.
«Le ho scelte sempre io in prima persona. le ricordo tutte con affetto e con profonda stima. In particolar modo Mariella Scirea, molto più di una semplice spalla. Competente e tifosa, non esitava a entrare nel merito della discussione con grinta e competenza, tenendo testa ai giornalisti. E poi Paola Perissi, la preferita da Gianni Agnelli: “È la cosa più bella della tua trasmissione” mi disse una volta».
Già, l’Avvocato. Uno dei molti personaggi ospiti del suo Processo.
«Ma da me sono passati tutti: politici, imprenditori, artisti. Agnelli lo ebbi una volta in collegamento da New York e credo che per questo abbia litigato con Boniperti, il quale mi ha sempre visto come nemico della Juve: non mandava mai nessuno in trasmissione».
Quale è stato lo “scoop” a cui è più legato?
«Senza dubbio quella volta, edizione 1982-83, che ebbi l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini in collegamento da Selva di Val Gardena, dove era in vacanza. Ebbi l’esclusiva grazie al suo capo ufficio stampa Antonio Maccanico, un amico. Avrebbe dovuto rimanere in collegamento per un quarto d’ora, invece rimase per tutta la trasmissione».
Due ore?
«Sì (ride di gusto). Arrivò in ritardo, lo stava aspettando il nostro inviato Franco Solfiti, che curava il servizio. Iniziò a parlare, fece addirittura una specie di telecronaca della discesa sulla neve degli alpini. Ma la cosa più clamorosa fu il suo simpatico “fuori onda”».
Che va svelato, a questo punto...
«La situazione politica era come al solito precaria. Alla domanda: “Presidente, allora andiamo a votare?”, sorridendo fece il gesto dell’ombrello».
Proseguiamo con gli “sgub”.
«L’annuncio in diretta del rinnovo del contratto di Falcão da parte della Roma. Un colpo grandioso. Quel lunedì avevo in trasmissione sia il presidente giallorosso Dino Viola che il campione brasiliano e, se non ricordo male, il senatore Giulio Andreotti in collegamento. La trattativa era dura, l’avvocato di Falcão era un tipo tosto. Poco prima dell’inizio della trasmissione, Viola chiese la disponibilità del mio ufficio per poter parlare con il giocatore».
Andiamo avanti.
«Finito il colloquio, escono dalla stanza e Viola mi fa: “Appena finita la sigla e dopo che avrai fatto l’apertura, intervengo io, devo dare la notizia del rinnovo di Falcão”. E così andò. Fioccarono gli applausi, il clima si scaldò subito. Anche quella volta eravamo collegati con Piazza del Popolo e i tifosi della Roma si diressero in massa verso lo studio. Falcão lo facemmo uscire da un’altra parte per evitare casini».
Nel 1987, la trasmissione emigra a Napoli, con Ferlaino e Maradona. «Altro momento cult. Lo studio fu trasferito presso la sede del Napoli. Era la puntata del lunedì successivo alla conquista del primo scudetto partenopeo. Avevo il presidente e Diego. Facemmo dei numeri da urlo».
Maradona è stato poi con lei anni dopo, come opinionista.
«Una stagione intera, in un’altra mia trasmissione che facevo su La7 il venerdì. Era il 2003, Diego in quel periodo aveva molte spese, qualche entrata in più gli faceva comodo, io gli sono stato sempre amico. Stava qui all’Hilton. E viene anche adesso, si incontra qui con suo figlio e credo che prima o poi lo riconoscerà».
Maradona è il più grande calciatore della storia del calcio?
«Sì, superiore a tutti. Messi e Pelé compresi. Come opinionista un po’ meno. A volte partiva la sigla e lui non era ancora arrivato perché era chiuso nel suo camerino con qualche donna».
Non abbiamo ancora parlato di Silvio Berlusconi.
«Siamo amici, l’ho avuto molte volte in collegamento. Qualche anno fa mi aveva promesso la presenza in studio, ma all’ultimo momento arrivò la disdetta dal suo ufficio stampa. Io allora lo chiamai direttamente. Gli dissi che mi metteva in difficoltà, anche perché avevo ormai annunciato la presenza del “presidentissimo Berlusconi”».
Lo convinse?
«Non era possibile. Allora concordammo che avrei detto in trasmissione ciò che lui avrebbe dichiarato se fosse stato presente. E così feci. Il giorno dopo Galliani smentì tutto sui giornali. Eh no, dissi io, così non va bene. Richiamai il Cavaliere. Ci pensò lui a mettere a posto le cose».
Nel maggio 1993, il clima tra lei e Berlusconi non era proprio idilliaco.
«Fece un intervento telefonico duro, lunghissimo – durò circa venti minuti – e ci accusò di falsare la realtà. In quel caso fu toccato nel vivo in qualità di presidente del gruppo Fininvest perché tirammo fuori le notizie sui diritti televisivi del Giro d’Italia».
È vero che a causa di quella incursione così rumorosa, lei decise di lasciare la Rai per andare a Tele+, la prima tv a pagamento?
«Non fu quello il motivo. Il Processo era cresciuto, ma aveva anche toccato il suo massimo in Rai. Era giusto provare altre strade, anche perché io ho sempre puntato sulla novità. Nella ricerca delle notizie, nel modo di darle, nell’individuare i personaggi e nella scelta dei collaboratori. È uno dei segreti del successo della trasmissione».
Gli altri quali sono?
«La libertà d’azione e la qualità giornalistica nel preparare il programma. Eravamo sempre sulla notizia. C’era il fiuto, la voglia di scavare dove altri non facevano o non erano stati capaci di farlo. Questo è stato più eclatante lontano dalla Rai. Mi viene a mente il caso Pantani. Noi fummo gli unici ad andare a parlare con i suoi genitori, con il medico personale del Pirata e col medico che aveva eseguito l’autopsia».
Ci sono ancora altri motivi?
«Certamente. In primo luogo la qualità e il peso degli ospiti, come si diceva prima. E poi gli opinionisti, che nei primi anni di vita del Processo ancora non si chiamavano così: competenti e, diciamolo, capaci di farsi sentire».
Come Maurizio Mosca e Gian Maria Gazzaniga.
«Mosca mi piaceva da matti. L’apprezzavo molto per il suo stile, per il suo giornalismo vero, genuino. Gli proposi di venire sempre in trasmissione. Ricordo che il fratello Paolo mi scongiurò di non farlo, conoscendo la verve di Maurizio. Ma io lo chiamai lo stesso. Ed ebbi ragione. Maurizio era un buono, assistette la madre malata fino all’ultimo. E poco prima che ci lasciasse, volli fare un collegamento con la clinica per salutarlo».
E Gazzaniga?
«Altro cavallo di razza, senza peli sulla lingua, coraggioso. Anche grazie a questi giornalisti è nato in tv un nuovo genere: il “calcio parlato”. Con loro in studio ero sicuro che il dibattito avrebbe preso il volo».
E l’audience avrebbe premiato il programma.
«Chi fa la televisione deve per forza fare i conti con i numeri. Non si scappa. E più la discussione si faceva calda, appassionata, più i dati ci davano ragione. Quando il clima si surriscaldava, pregustavo già il successo dell’indomani».
E magari aizzava pure.
(ride) «No, io ero super partes. Dicevo sempre agli ospiti di non accavallarsi (altro sorriso)».
Tra gli opinionisti ha avuto anche Gianni Brera.
«Gli stavo simpatico. Diceva di me che ero un meridionale, ma con origini normanne. La nostra amicizia è nata in Svezia, in occasione dei Mondiali del 1958. La nostra Nazionale non si qualificò, giornalisti italiani ce ne erano pochi. E proprio a noi due Anita Ekberg svelò che di lì a poco avrebbe iniziato a girare “La dolce vita”. Ma il vero scoop fu un altro».
Quale?
«Un giorno ci chiama Vicente Feola, Ct del Brasile, oriundo italiano. “Paisà, domani venite all’allenamento: vi faccio vedere un ragazzino che è un fenomeno”».
Immagino chi fosse.
«Era Pelé, ma nessuno lo conosceva. Andammo al campo. Pelé era al limite dell’arca con una decina di palloni. In porta Gilmar. Feola dalla panchina gli urlava: “Izquierda” e lui colpiva il palo di sinistra. E poi “Derecha”, e traballava l’altro legno. Su dieci tiri, ne ha sbagliato uno. Io e Gianni siamo stati i primi a scrivere di Pelé».
E quando è stato il momento opportuno, ecco Brera ospite fisso.
«Per me fu un onore. Lui anni prima mi aveva fatto fare un’intervista in esclusiva con Zico che era appena stato acquistato dall’Udinese. E rimasto al Processo fino alla morte, nel dicembre del 1992. Aveva carta bianca e gli era concesso di fumare liberamente davanti alle telecamere. Per il Processo fu un grande contributo».
Quanta ansia c’era il martedì mattina per i risultati dell’Auditel?
«Non molta, dico la verità. Un po’ perché sentivo già dalla sera prima che numeri avremmo fatto e mi sono sbagliato poche volte. Gli unici momenti di maggiore tensione li ho vissuti quando ci misero in concorrenza con “Quelli della Notte” di Renzo Arbore. Ma abbiamo resistito anche a quella corazzata».
E delle polemiche intorno alla sua trasmissione che dice?
«Ne ho sempre preso atto. Teatrino cialtronesco, calcio urlato, deriva del giornalismo. Qualcuno ha anche parlato di “biscardismo”. Ne ho dovute sentire molte. Chissà, forse in percentuale sono state maggiori le note negative rispetto a quelle positive. Magari a scrivere male erano quei giornalisti che non venivano chiamati. Io avevo come scopo quello di fare una bella trasmissione che potesse essere seguita da un pubblico sempre più vasto».
Nel 2000, una sentenza definì il livello di credibilità del Processo «assai basso».
«Ma in quel caso vincemmo la causa intentata dagli arbitri che ci avevano querelato. Ognuno può dire quello che vuole, ma intanto io ho sempre fatto milioni di telespettatori e quattro anni fa sono entrato nel Guinness dei primati come trasmissione più longeva del mondo: 32 edizioni consecutive, ho fatto meglio del Letterman Show».
Chi deve ringraziare?
«Tutti, ma in particolar modo mia moglie e i miei figli Maurizio e Antonella, che è laureata in architettura ma sta da sempre con me».
L’hanno spesso presa in giro per il suo dialetto.
«E pure per i congiuntivi, per le polemiche che “fioccano come le nespole” e per le iperboli. Ci ho sempre riso su, anzi in alcuni casi ho pure saputo cavalcare l’onda e risultare ancora più familiare e popolare».
A tal punto popolare che la stampa scrisse a caratteri cubitali che lei aveva un fratello senatore.
(risata) «In condizioni normali la notizia sarebbe stata al contrario. Lui, professore e preside, tra l’altro di Fred Bongusto e Antonio Di Pietro, s’incazzò di brutto! Devo molto a mio fratello Luigi. Se ho iniziato a fare il giornalista, lo devo a lui, che aveva una corrispondenza con la Gazzetta dello Sport. Quando vinse il primo concorso come archivista e fu trasferito a Mantova, io presi il suo posto. Ero ancora un ragazzo, ma da lì è iniziata la carriera».
Tra i tanti ospiti delle sue trasmissioni, a chi è rimasto più legato?
«Ci sono i nomi che abbiamo fatto prima, da Pertini in giù. Ho amato Carmelo Bene, un genio, con lui la puntata del Processo poteva andare verso qualunque vetta».
E con i calciatori?
«Sono cambiati moltissimo. Nei primi anni erano più genuini, più veri. Venivano volentieri, di vetrine ce n’erano poche. Oggi mi sembrano tutti impostati. Non sai mai cosa pensano».
Oltre al tradizionale Processo del Lunedì, c’è sempre stato l’appuntamento col Processo ai Mondiali.
«Non potevamo farci sfuggire l’occasione, specie dopo l’exploit del 1982. Il picco lo raggiungemmo a Italia ’90, con lo studio accanto allo spogliatoio della Nazionale italiana. Credo di aver fatto anche 10 milioni di spettatori quella volta».
Lei è sempre stato favorevole alla moviola in campo, che nel Processo si è trasformata in “moviolone”.
«E in trasmissione mi sono affidato a esperti della materia per i commenti più appropriati. Ho iniziato con gli ex calciatori. Altafini è stato il primo, Mauro Bellugi il migliore. E poi Giacinto Facchetti, anche lui per una stagione al Processo a commentare la moviola, forse non tutti lo ricordano. Poi mi piace citare Enrico Albertosi, che volli come collaboratore nel 1985. Era stato messo ingiustamente ai margini dopo la squalifica del calcioscommesse del 1980. Io lo portai in video affidandogli un ruolo delicato».
Si parla di “moviolone” ed ecco accendersi la casella Moggi.
«E io non mi sottraggo certo alle domande».
Chi è Luciano Moggi per lei?
«Un ottimo dirigente di calcio, uno che difficilmente ha sbagliato un acquisto, uno che non ha mai nascosto di fare di tutto per la società, magari ostentandolo troppo. Direi che è una copia un po’ sbiadita di Italo Allodi, un grandissimo. Come lui, ha avuto grande potere, compreso quello di parlare con gli arbitri, coi dirigenti, coi giornalisti».
E anche con lei.
«Telefonava, ma come faceva con tutti. Anche quando il Processo era su La7».
Tronchetti Proverà che le diceva?
«Va detto che Marco mi ha sempre parlato benissimo di Moggi. Poi un giorno mi fa: “Un dirigente della Rai mi ha detto che tu lasci troppa libertà a Moggi e quando puoi lo aiuti”. Gli dissi: “Caro Marco, nessun dirigente Rai ti ha detto questo. Sono idee tue. E comunque Moggi viene in trasmissione alle stesse condizioni di tutti gli altri e per lo stesso numero di volte”».
Poi però scoppia lo scandalo. E il “moviolone” si trasforma in un trappolone per lei.
«In primo luogo ho sempre dato moltissima libertà ai miei “moviolisti”. È successo che uno di questi (Fabio Baldas, ndr) effettivamente abbia seguito le indicazioni di Moggi. Ovvio che il fatto ha trascinato dentro anche me».
E poi cosa è successo?
«Quello che doveva succedere. Il Tribunale di Napoli ha indiscutibilmente riconosciuto la mia assoluta estraneità rispetto ai movimenti moggiani. Ma di questo ho sentito poca eco nei telegiornali. Nessuno ha più detto niente, nessuno mi è più venuto a cercare».
E intanto il Processo è costretto a emigrare e finisce su 7 Gold.
«Ma non muore, anzi è vivo e vegeto. Da mamma Rai era passato ai circuiti a pagamento nel 1993, quindi tre anni dopo ecco Telemontecarlo, poi trasformatasi in La7. Ora era il tempo di altri scenari. Per me, meglio così. Mi piacciono le sfide e le novità. Ma soprattutto mi piace poter vedere ancora oggi che la mia creatura continua a piacere. Sempre di lunedì sera».
Sulla Rai Enrico Varriale le fa concorrenza, però.
«Ma quale concorrenza? Il suo Processo non lo vede nessuno. A Enrico gli voglio bene, in Rai l’ho portato io. E quando mi ha chiesto di poter usare la testata originale, gliel’ho concessa subito, tanto sapevo che non c’era partita».
Al suo Processo è legato anche il dolce ricordo di Paolo Valenti.
«L’ultima sua telefonata, pochi giorni prima che morisse, la fece con me: “Sono andato al tappeto e non mi rialzerò più”. Nella mia casa di campagna, tra le cose più care, conservo ancora un premio che fu dato a Paolo, ma che lui volle dedicare a me».
Torniamo al presente. A 40 anni di trasmissione ci arriviamo?
«Io sono qua. La domenica sera inizio a pensare alla scaletta, il lunedì mattina la definisco e poi parto per la messa in onda. È la mia vita».
E allora, ancora tanti, tanti auguri.
«E io rispondo: Denghiù».