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 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

Intervista a Giacomo Bonaventura, il calciatore senza tatuaggi

Certi giocatori valgono molto di più di un undicesimo della squadra. Quelli che per carattere, impegno, qualità e senso di posizione finiscono per diventare insostituibili, facendo reparto e differenza. Nel Milan il prototipo si chiama Giacomo Bonaventura ed è una delle poche colonne rossonere mai in discussione. Lo scrivevamo nel numero scorso del Guerin Sportivo parlando della squadra di Mihajlovic: «Ci vorrebbero 11 giocatori come Bonaventura». Eccolo qui.
Ha modi educati al limite della riservatezza e un pudore che appartiene a un’altra Italia, quella delle sveglie al mattino e del lavoro durante tutto il giorno. Funziona così a San Severino Marche, dove Bonaventura è venuto al mondo 26 anni fa. Non è nato con il talento di altri, ma ha costruito la carriera con fame, passione, disponibilità al sacrificio, in una terra che produce molto senza mai finire in prima pagina. Anche per lui, nel suo look, pochi lustrini e molta sostanza. Non a caso qualunque allenatore passato di qua, a Milanello, lo ha eletto a colonna. Il signor Bonaventura non ha nemmeno un tatuaggio in epoca di braccia tappezzate dai disegni più demenziali.
Giacomo o Jack?
«Come preferisci».
Perché calciatore?
«Semplicemente perché papà Gianfranco è sempre stato un grandissimo appassionato di pallone, con una vaga simpatia bianconera. Ma questo non so se posso dirlo».
Certo che puoi.
«Lui ha giocato nei Dilettanti e mi ha trasmesso la passione per il calcio. Ogni tanto rifletto sul fatto che mi alleno nello stesso posto in cui hanno lavorato Van Basten, Gullit e Rijkaard. Io sono cresciuto col mito del Milan di Ancelotti».
Domanda: quando si arriva in alto come te, rimane il piacere o il pallone diventa solo dovere?
«È strano. Per un lungo periodo il calcio è stato solo allegria, evasione, poi è diventato impegno, senso di sacrificio. Col tempo sto tornando a divertirmi come mi accadeva nei primi anni. È come se fosse tornato fuori il bambino che ho dentro».
Quel bambino che, lo ricordavamo prima, iniziava a giocare a San Severino Marche.
«In realtà ho cominciato nel San Francesco Cingoli, che è un paesino più piccolo ed e attaccato a San Severino. È quello di mia mamma. Su wikipedia c’è scritto che ho giocato nella Virtus Castelvecchio. Boh. Poi sono passato al Tolentino, che nella nostra zona è una delle squadre più attrezzate per il settore giovanile».
È il paese di Fabrizio Castori.
«Si respirava in qualche modo l’aria di professionismo attraverso gli Allievi nazionali. Avevo fatto anche un provino col Cesena, ma ero piccolo e non mi avevano preso. Sempre in quel periodo, d’estate, partecipavo spesso a degli stage che si facevano a Castelraimondo, organizzati dall’Atalanta e guidati da mister Pala. La vita è strana».
Perché dici così?
«Perché a un certo punto ero abbastanza rassegnato all’idea che più in su del Tolentino non potessi andare. Smettere no, ma non pensavo di farne un mestiere. Ma a San Severino Marche si teneva ogni anno il premio “Regina del calcio giovanile” (organizzato da Gabriele Cipolletta, con il patrocinio del Guerin Sportivo, ndr). Una sera vi trovai Pala e Antonio Bongiorni, osservatore dell’Atalanta. Mi dissero: “Se non ti va di salire fino a Bergamo, accetta di giocare nel Margine Coperta”, società toscana legata allora ai nerazzurri».
Già famosa per avere tenuto a battesimo Pazzini.
«Esatto. E mi trasferii lì a 15 anni. Inizio durissimo. Ricordo il silenzio di mia madre Dorina. Già mia sorella Marianna era uscita di casa a 12 anni per seguire la sua strada nella ginnastica artistica, dopodiché era passata a Perugia per studiare, nel momento esatto in cui io lasciavo casa per Margine Coperta».
Si cresce in fretta.
«Molto in fretta. Fuori casa ti devi arrangiare, sei solo. Niente amici, niente comodità. È uno dei motivi per il quale non sono riuscito a terminare gli studi. Ho fatto informatica all’Itis, ma è dura allenarsi e studiare, specialmente quando ti ritrovi solo. È uno dei rimpianti che ho, ma sto pensando di riprendere gli studi».
Al Margine Coperta sei rimasto un anno.
«Sì. perché alla fine di quella stagione sono andato a Bergamo, per entrare definitivamente a Zingonia. Che effetto vedere quella distesa di campi, trovare una professionalità così alta».
Il modello Atalanta è reale?
«Sì, ma parte dagli uomini prima che dalle strutture, comunque eccezionali. Ho trovato tante persone che mi hanno aiutato: Pala, Bongiorni, ma anche Mino Favini, un altro che mi ha aiutato a crescere».
Se sei diventato Bonaventura, a chi lo devi?
«Non voglio apparire presuntuoso, ma credo a me stesso, alla mia determinazione. Tornando all’Atalanta, mi ha aiutato a migliorarmi. Quando arrivai c’erano 13 giocatori del vivaio in prima squadra e non era un caso. A Zingonia ti insegnano a giocare a calcio. Penso che dipenda dalla concorrenza degli altri club».
In che senso?
«In zona ci sono club grandi come Inter e Milan, capaci di attirare i migliori talenti. Per questo chi gioca nell’Atalanta ha più carattere e duttilità tattica. All’Atalanta ho imparato a comportarmi bene, ma anche a fare le cose giuste in tutte le parti del campo: attaccare, difendere, contrastare, fare assist».
Il risultato è un giocatore universale come sei tu adesso.
«È vero: so coprire più ruoli. Centrocampista centrale, mezzala. all’occorrenza trequartista, anche se il mio ruolo preferito è in fascia, alto in un 4-3-3, in un 4-4-2 o in un 4-2-3-1. Quando la squadra è organizzata, da quel punto riesco a dare il meglio perché sento il gol».
Posso chiederti cosa ricordi del 4 maggio 2008?
«Il giorno del mio debutto in Serie A. È una cosa bellissima, l’avevo sognata e me l’ero raffigurata in testa molte volte. Ho in mente la corsetta prima di fare l’ingresso, sotto gli occhi di Del Neri. Ero teso, da giorni sentivo nell’aria che il momento era vicino. Contro il Livorno entrai al posto di Tissone a un quarto d’ora dalla fine. Indimenticabile. È la tensione che talvolta sento ancora oggi prima dei grandi match».
La notte prima degli esami dormi?
«Quello sì, ci sono sempre riuscito bene. Anzi, con il passare degli anni ho migliorato la gestione emotiva. Il mal di pancia c’è sempre, ma rispetto a una volta entro subito dentro una partita».
Dopo il debutto in prima squadra e prima di consacrarti nell’anno di Serie B, ci sono stati due prestiti nel mezzo: Pergocrema e Padova.
«Lo dico oggi: è stato il momento più duro della mia carriera. Perché dopo il debutto in Serie A è difficilissimo ricominciare dalla Lega Pro: cambia prospettiva e anche tu devi accettare di ricominciare. Andavo a giocare contro gente di 30 anni che aveva da portare a casa il pane per i figli: dovevi stare attento alle caviglie. Ma ha reso più forte il mio carattere».
Non è una frase fatta, vero?
«Assolutamente no. Mangiavo la polvere e dovevo stare zitto, sperando che da Bergamo mi richiamassero. Anche Padova ha avuto una grande importanza, perché li ho dato continuità al mio rendimento».
Il salto era dietro l’angolo.
«Anno 2010, il più importante della mia carriera. Tornando a Bergamo, ho incrociato sulla mia strada Stefano Colantuono, l’allenatore che per primo mi ha piazzato a sinistra. Col suo 4-4-2 mi sono trovato a meraviglia, arrivando a segnare 9 gol, che tra l’altro valsero 18 punti. Fu una stagione bellissima, in cui sostituivo spesso Doni, conclusa con la Serie A».
Ti fornisco un’altra data: 11 aprile 2011.
«Anche questa non la posso dimenticare: prima rete nella massima categoria. Non mi sarei mai aspettato di segnare il primo gol a Napoli, al San Paolo. Che emozione!».
Un altro campionato all’Atalanta, ormai da protagonista, e nell’estate di un anno fa il salto decisivo al Milan.
«Stavolta la data la metto io: primo settembre 2014. Lunedì. Giorno indimenticabile, incredibile, difficile pure da spiegare. Alla mattina ero un giocatore dell’Inter. Fatta e finita. Da Bergamo siamo partiti in auto con il presidente Percassi e con il Direttore generale Marino. Mi voleva Mazzarri. Sono sincero: ero contento della cosa».
Ci credo.
«Ho pensato: dopo quattro anni di Atalanta, vado in una società più grande. L’Inter doveva cedere Guarin per aprire un posto e invece il colombiano non è stato ceduto. Così al pomeriggio di quel lunedì incredibile ho immaginato che non se ne facesse più nulla. Devo dire che il mercato visto da vicino non mi è piaciuto. Un calciatore non deve vivere quel tipo di tensioni, deve essere staccato dagli aspetti economici e pensare solo al campo».
Ma ecco il Milan.
«Ero venuto a Milano per firmare con l’Inter e alle 20,30 mi ha bloccato Marino: “Guarda che mi ha chiamato adesso Galliani: andiamo subito a casa Milan”. Stavo per ridere, era una situazione pazzesca. Mezz’ora dopo ero al telefono col presidente Berlusconi che mi dava il benvenuto in rossonero. Parliamo dell’uomo che ha costruito il club più vincente al mondo».
Contratto fino al 2019.
«Sono felicissimo. Ricordo benissimo l’emozione del primo giorno a Milanello: in questo posto hanno giocato tutti i grandi. Ti confesso che ho passato i primi giorni a guardare le tante e bellissime fotografie che sono appese su questi muri: Champions, scudetti, fuoriclasse ovunque».
Cosa hai provato il giorno dell’esordio in rossonero?
«Parma-Milan. Subito in campo, subito titolare dal primo minuto e subito in gol. Fantastico. Ho conservato quella prima maglia. Ma ho conservato nella memoria anche i primi momenti. È difficile spiegare cosa si provi a entrare in un club come questo».
Più felice tu o tuo papà?
«Scherzi? Mio papà. È il mio primo tifoso. Nel frattempo è andato in pensione e viene quasi sempre a vedermi».
Cosa ti piace di Mihajlovic?
«La cosa fondamentale è sapere cosa succede quando si scende in campo. Mihajlovic ci detta uno spartito da eseguire. L’altra cosa che mi colpisce del mister è la fiducia che trasmette».
Il carisma non gli manca.
«Proprio no. Ha carattere e lo sta dimostrando anche nelle difficoltà che ha incontrato. Se le cose stanno via via migliorando, il merito è dell’allenatore. Serviva tempo, non dimentichiamo mai che sono arrivati molti giocatori nuovi. Alcuni forti».
Faccio un nome io: Carlos Bacca.
«È fortissimo. Se ha un’occasione sotto porta, difficilmente la sbaglia. Ma ti faccio io un altro nome: Luiz Adriano. Un talento eccezionale, eppure ha accettato anche lui la panchina. Le squadre vincono con l’unione. La collaborazione tra compagni è uno dei segreti del calcio moderno».
L’altro aspetto è la crescita di un blocco italiano: tu, Romagnoli, Bertolacci, De Sciglio, Abate, Antonelli, Montolivo tornato titolare, più il giovanissimo portiere Donnarumma.
«Questo aiuta a formare un gruppo compatto. Ci vuole un nucleo e per fortuna qui esistono relazioni eccellenti tra di noi. La squadra esalta sempre il valore dei singoli».
L’anno passato, nelle difficoltà vissute dal Milan di Inzaghi, tu sei stato tra i pochi a non affondare. Per quale ragione?
«Credo che dipenda dal mio carattere. In questo sono un figlio perfetto della mia terra, dove si lavora e si suda senza mai deprimersi. A me non interessava se perdevamo 3-0, il mio obiettivo era impegnarmi per fare bene. Molto ha influito anche la scuola dell’Atalanta».
Torniamo lì.
«Mi sono sfinito sulla fascia, a forza di salire e scendere. Con Colantuono ho consumato le cartilagini del ginocchio (sorride)».
Davanti a te c’è l’Europeo in Francia. Ci punti?
«La Nazionale è un sogno per tutti. È stato un onore debuttare nella partita contro San Marino. Altro giorno indimenticabile: 31 maggio 2013. Quanto alla domanda, ti rispondo che mi piacerebbe certamente disputare un Europeo o un Mondiale».
Quanto è cambiata la tua vita nell’ultimo anno e mezzo?
«In realtà meno di quello che puoi pensare. Non mi piace stare in mezzo al caos, cerco la calma e la vita riparata. Amo andare a un cinema con la mia fidanzata oppure mettere su un bel disco in casa. Oasis. Blur, diciamo tutto il brit-pop: stacco completamente dal lavoro. So anche suonare un po’ la chitarra».
Come si fa a rimanere così normali di fronte alla celebrità?
«La normalità mi piace, ma non mi sforzo di voler essere un tipo normale, cosa che ha un altro significato. Mi spiace quando vedo l’immagine negativa che talvolta circonda i calciatori. Io ho un’Audi e vivo una vita abbastanza normale. Però tutti a dirmi: “Non sembri un calciatore”. Non è vero: io sono un calciatore e siamo in tanti a essere ragazzi tranquilli. Faccio shopping come tutti, una cena con gli amici come tutti, mi metto in fila negli uffici come tutti».
Chiudiamo con la vera prova del nove. Hai un tatuaggio?
«No, nessuno. Ma non è importante. Un calciatore lo si giudica sul campo, giusto?».
Giustissimo.