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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Abbiamo un problema con le banche, niente alibi

L’intero mercato delle obbligazioni subordinate e strutturate bancarie tende all’azzeramento. Era il canale di raccolta a basso prezzo più praticato rispetto ai Paesi Ocse dal sistema bancario italiano, secondo solo ai depositi. Appena è esplosa la protesta degli obbligazionisti subordinati, il decreto legge di «risoluzione» di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti ha finito per esercitare un effetto-sfiducia sull’intero sistema. Un effetto che non ha precedenti non solo in questi anni di crisi, non avvicinabile alla crisi Mps che pure non è ancora risolta, ma quasi paragonabile alla crisi dell’Ambrosiano nel 1982, e a quella della Banca di Sconto nel 1921.
I problemi, venuti al pettine dopo esser stati a lungo tenuti sotto il tappeto, non investono solo le quattro banche liquidate e riavviate. Riguardano un’estesa parte del sistema bancario italiano. Un conto è capire come siamo arrivati a quel decreto. Un altro, accertare le responsabilità di quel che è successo, e garantire le azioni a tutela dei frodati. Altro conto ancora è porsi il problema di come sia possibile che Bankitalia autrice di quel testo e il governo che l’ha approvato abbiano pesantemente sottovalutato la vasta sfera concentrica di problemi che quel decreto avrebbe determinato.
Entro pochi mesi, è o bisognerebbe dire era? attesa un’ondata di quotazioni in Borsa e fusioni tra le 10 maggiori banche popolari che hanno mutato natura giuridica in spa, per effetto del decreto legge emesso dal governo a gennaio 2015. Tra quelle la cui fusione è più problematica sono la Popolare Vicenza e Veneto Banca, che da sole hanno una capitalizzazione attuale di 3,7 e 2,9 miliardi ma che vedranno, secondo gli analisti, un’ulteriore forte riduzione del valore delle azioni nel momento della quotazione. I titoli sono ancora a valore di libro e non di mercato, deciso dai consigli di amministrazione. I titoli della Vicenza sono già scesi da 62 a 48 euro, all’emergere delle sofferenze che sono costate la presidenza dopo 20 anni a Gianni Zonin. Mentre quelli di Veneto Banca sono state tagliati da 39,5 a 30,5 euro, la scorsa primavera e poi, il 3 dicembre, addirittura a 7,3 euro. Entrambi erano prezzati a multipli del patrimonio netto tra il 50 e il 60 per cento superiori alla media delle banche italiane, ma i regolatori nulla avevano eccepito. E queste due sole banche hanno emesso obbligazioni subordinate per oltre 1,6 miliardi, più del doppio dell’ammontare dell’azzeramento avvenuto con le quattro piccole banche «risolte» per decreto.
Superano i 16 miliardi di valore attuale le azioni non quotate delle altre maggiori 20 banche popolari e dunque anch’esse a valore di libro, spesso arbitrario rispetto al patrimonio al netto delle sofferenze. E in moltissimi casi, secondo una copiosa serie di segnalazioni infittitasi nel 2015, l’acquisto di questi titoli da parte di correntisti o di persone fisiche e piccole imprese che chiedevano un prestito, è avvenuta secondo procedure «spintanee» allo sportello delle stesse banche emittenti. Non a caso stanno nascendo dovunque comitati di azionisti pronti a valutare azioni di rivalsa nei confronti degli ex e degli attuali amministratori.
Secondo problema: il riordino delle banche di credito cooperativo (Bcc). Già a gennaio fu evidente che il governo aveva a lungo meditato se emanare un decreto anche per loro. Per poi soprassedere, invitando l’intero sistema a un’autoriforma. L’idea sarebbe quella di una grande federazione con un’unica holding, sul modello del Credit Agricole francese. Stiamo parlando di 379 banche e casse rurali con oltre 4.400 sportelli, 1,2 milioni di soci, 37 mila dipendenti, l’8 per cento della raccolta. Un sistema anch’esso stremato dalla crisi e corto di capitale rispetto alle sofferenze accumulate, che oltre ad aver bisogno di iniezioni di patrimonio necessita di misure efficaci di prevenzione e gestione delle crisi, serio risk management e procedure di controllo adeguate. Nonché di una generale revisione dei criteri volti a impedire conflitti d’interesse e operazioni tra parti correlate, visto che le Bcc sono espressione dei poteri locali politici, associazioni di categoria e d’impresa esattamente del tipo che riscontriamo oggi con scandalo alla Popolare dell’Etruria e in Banca Marche. Inutile dire che l’autoriforma non c’è stata.
Infine, non dimentichiamolo, il problema Mps aspetta ancora di essere risolto. Come ordine di grandezza ed essendo tra le maggiori banche italiane direttamente sottoposte a vigilanza europea, è il guaio più urgente. Il neo presidente Massimo Tononi è in carica da fine settembre. Mps ha ancora 45 miliardi di crediti deteriorati e 26,3 miliardi di sofferenze lorde, dopo quattro aumenti di capitale per 15 miliardi dal 2008. In queste condizioni, non se lo compra nessuno né in Italia né in Europa. Ha atteso invano la bad bank promessa per un anno da Bankitalia, su presupposti rivelatisi poi fallaci visto il no fermo (e scontato) dell’Europa. E dopo il decreto sulle quattro banche il titolo è andato a picco. Il governo entro fine anno deve cedere il 4 per cento del capitale, in cui si è tradotto a fine giugno il resto dei Monti bond non rimborsati da Siena. A chi lo venderà, a queste condizioni di prezzo? Verso quale cavaliere bianco getterà un ponte, ora che è diffusa la sfiducia verso le regole del sistema, e quando Bankitalia è andata all’assalto come mai della Commissione europea? Chi ha in carico il dossier al governo? Luca Lotti, che fino a settembre aveva sempre seguito per il premier le vicende senesi? O Claudio Costamagna, fresco di nomina alla Cassa depositi e prestiti?
Ecco per sommi capi ciò a cui i responsabili dell’improvvisato «bail in» all’italiana sembrano sinora aver fatto davvero poco caso. Problemi enormemente più seri delle stesse migliaia di risparmiatori traditi dalle subordinate. E dello stesso innegabile conflitto d’interessi di Maria Elena Boschi. Che ha ragione nel pensare che le eventuali colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma è stata del tutto inopportuna quando, aprendo bocca per la prima volta, ha attaccato l’Europa che con la vicepresidenza del padre in Banca Etruria non c’entra un beneamato piffero, come con gli amministratori sovraffidati di quella banca, o i megaprestiti a parti correlate, espressioni di quel sistema cooperativo che suo padre ad Arezzo ha guidato per anni.
Un pessimo frangente, dunque, per inscenare la penosa gara a scaricabarile tra Consob e Bankitalia sulle cattiva condotte del sistema bancario. Fa specie sentire Bankitalia affermare che per vietare le obbligazioni subordinate ai clienti retail occorra una legge, quando i documenti Abi sin dal 2013 recano scritto che in vista del bail prossimo le direttive Esma-Consob escludevano quei titoli ai clienti retail. E fa specie che Consob dica che ha fatto tutto il possibile: dopo che i suoi stessi documenti affermavano che quei titoli erano «di natura complessa» e dunque non adatti ai risparmiatori comuni, non si è certo scatenata in controlli per sanzionarne la vendita. Mentre Matteo Renzi si lamenta della strumentalizzazione politica della vicenda e rassicura: «Le banche vanno accorpate, a partire dalle Bcc, ma le nostre sono più solide di quelle tedesche».
Fosse vero quel che dicono i regolatori, non avremmo oggi gente che piange. Né avremmo avuto quel potente reticolo d’interessi conniventi che in troppe banche legano manager e amministratori disinvolti ai poteri locali, ciascuno pronto a reggere attivi e passivi non veritieri dell’uno e dell’altro. Questa è l’amara realtà scoperchiata dalle banche liquidate. Ed è un guaio tutto italiano, non sono certo i tedeschi ad aver nominato parenti di politici imbancati, né ad aver fatto tenere gli occhi chiusi ai regolatori italiani.