Sette , 18 dicembre 2015
Uberto Pallastrelli, ritratto di un ritrattista
Dice la leggenda che quando Anita Ekberg, accavallando le gambe e scostando i lunghi capelli biondi, si accomodò nello studio al primo piano sopra la Fontana di Trevi, il conte Uberto Pallastrelli di Celleri, ritrattista delle celebrità nonché uomo di mondo, alzò il sopracciglio di fronte al codazzo di parrucchieri, truccatori, estetiste. Ed ebbe un brivido contenuto. Confidò più tardi: «Anita sembrava uscita un attimo prima dalle acque della Fontana, Marcello, come here... Era una scena che sarebbe piaciuta a Fellini. La Ekberg creava lo spazio, muoveva i pensieri, il suo sguardo era una lusinga. Aveva un viso che chiedeva: dipingimi». All’ora del ritratto, gli scugnizzi di Roma litigavano per avere i posti migliori. L’orario dell’apparizione della dea era un segreto di Pulcinella e un popolo minuto di snob e piccoli Totò affollava i vicoli fino al Quirinale. Le sedute furono poche, Pallastrelli era assai rapido nel tratto. Anita ogni tanto rompeva la noia affacciandosi alla finestra per raccogliere applausi. Tutto questo successe poco dopo l’uscita della Dolce vita, la Ekberg era una star e quel film, s’intuiva, avrebbe lasciato un segno nell’evoluzione del costume italiano.
Uberto Pallastrelli (Piacenza, 13 maggio 1904 – Santa Margherita Ligure, 11 aprile 1991) era abituato alle suggestioni del beau monde, alle vite splendide. Giramondo per vocazione, attento alle avanguardie, discendente di Cristoforo Colombo: la seconda moglie del grande navigatore era figlia di quel Pallastrelli che riscoprì l’isola di Madera ricavandone titoli e onori portoghesi. A suo modo, il conte Uberto anticipò la civiltà dell’immagine. Sulla sua spalla di maestro del ritratto si appoggiarono, a cavallo della Seconda guerra mondiale, reali, pin-up e tycoon, Cinecittà e Hollywood, capitani d’industria e perdigiorno tracimati da via Veneto. Il suo studio divenne il rifugio dei narcisi, lo specchio attraverso il quale trafugare bellezza e potenza, in cui santificare il successo. A lui, al suo talento, sarà dedicata una mostra che si terrà a Piacenza, a Palazzo Galli, e sarà aperta al pubblico dal 20 dicembre al 17 gennaio 2016. Ottanta opere: ritratti soprattutto, ma anche paesaggi, nature morte, animali. Sarà ricostruito lo studio di Roma: cavalletto, sgabello, spatole, pennelli, i colori rimasti sulla tavolozza dopo l’ultima opera eseguita.
Vero bohémien. Narra ancora la leggenda che il piccolo Uberto abbia eseguito il primo autoritratto a 11 anni. Subito dopo divenne un allievo “tenero e ribelle” dell’istituto Gazzola, a Piacenza. Seguì lo studio “faticosissimo” all’Accademia di Brera, nella Milano delle nebbie e dei tormenti. A Parigi, il conte Uberto visse da vero bohémien. La sua mostra alla Galleria Charpentier fu un evento di cui si scrisse sui manifesti e si parlò nei bistrot e nei salotti borghesi. A Venezia posarono per lui Barbara Hutton, l’ereditiera, e la Maharani Indira di Kapurthala. Poi vennero i successi di Londra, Buenos Aires, Palm Beach, Nizza. Negli anni Trenta-Quaranta Pallastrelli era il preferito della nobiltà inglese: il duca e la duchessa di Marlborough, lord e lady Mountbatten, la contessa di Jersey, la duchessa di Westminster ne riverivano il talento. Strinse la mano di re Giorgio VI; a New York, fu uno dei protagonisti del Columbus Day a fianco del sindaco Fiorello La Guardia. E divenne il punto di riferimento del jet set internazionale, dei ricchi e famosi: Gianni Agnelli, che ritrasse in divisa durante la Seconda guerra mondiale, l’Aga Khan e la Begum, la regina Elisabetta.
Nel 1942 partecipò alla Biennale di Venezia con un ritratto della principessa di Piemonte Maria José e del primogenito Vittorio Emanuele. Nel 1953 conobbe Aristotele Onassis a Portofino. Evoca di nuovo la leggenda che, in quel ’53, il Paperone greco invitò il conte Uberto sul suo panfilo, l’Olympic Winner, per una crociera e gli chiese di ritrarre i figli Alexander e Christina. Aristotele rimase così contento dal lavoro fatto che chiese carta e penna per avere Pallastrelli in esclusiva. Cinque anni, la cifra non contava. Pallastrelli rifiutò, provocando l’ira dell’armatore, non abituato a sentirsi dire di no e spaccò un bicchiere per la stizza. La traversata si interruppe bruscamente a Capri, con Pallastrelli che scese dal panfilo e si portò via il ritratto di Alexander e Christina. Prima dell’incidente, l’Olympic Winner incrociò la nave scuola Amerigo Vespucci, che, su richiesta di Onassis, rallentò la navigazione per consentire a Pallastrelli di dipingerla.
Sangue blu e Harry’s Bar. Il conte Uberto amava Renoir, Manet, Degas, John Singer Sargent e Boldini. La natura e gli animali entrano nei suoi quadri come presenze rasserenanti. Il suo colore preferito era il giallo. Gigli, girasoli e mimose rappresentano un elemento costante della sua pittura. Così come cani, cavalli, galli, chiocce e pulcini, pesci, persino una tigre. Ma era nel ritratto che Pallastrelli dava il meglio di sé. Un talento chiaro: interpretava i gesti, misurava gli sguardi. Un sensibile traghettatore di sentimenti e stati d’animo. Usava la tecnica a spatola per convogliare la luce e raccogliere riflessi più veri. Forse non è stato il più grande ritrattista del Secolo breve, sicuramente è stato il simbolo di un mondo (quasi) perfetto, liquido, nottambulo e di sangue blu che si ritrovava all’Harry’s Bar o al Caffè Greco e aveva come punti di riferimento Grace Kelly, Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Anna Magnani.
Aristocratico, brillante, alto un metro e novanta, i capelli lisciati dalla brillantina, Pallastrelli andava a cavallo ed era un campione di canottaggio. A Venezia si metteva al remo delle gondole lungo i canali. Secondo il mito, fu uno sciatore come neanche James Bond e un cultore delle cravatte regimental e del papillon. Agli inizi degli anni Quaranta, a Cortina, nelle pause delle pose per il ritratto di Maria José e dei suoi figli, volava sugli sci con la principessa e gli amici. Le signore avrebbero fatto follie per lui, che invece restò fedele per tutta la vita alla donna che gli aveva rubato il cuore a Venezia, Pia Viviani: una bellezza speciale, divenne subito la sua modella preferita, con la figlia acquisita, Thea, anche in dipinti di soggetto religioso. Ma, soprattutto, Pia fu la sua compagna nella scoperta della comunità cosmopolita che abitava in laguna. Si sposarono a Genova nel 1936. Da quel momento la loro vita fu un tappeto volante.