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 2015  dicembre 18 Venerdì calendario

Te lo ricordi Piloni? Lo storico secondo di Zoff è finito male

E poi ti ritrovi dentro a un tunnel. «La ruo­ ta della vita per me ha sempre girato nel verso sbagliato». Periferia sud di Roma, strade con vista sulla campagna, un can­ cello mezzo arrugginito: lontano dai cla­ mori, dentro alla sofferenza silenziosa. La sua tu­ ta della Juve immortalata in mille foto ingiallite dal tempo sembrava un pigiama. Ora quel pigia­ ma vorrebbe diventare di nuovo una tuta, un lavo­ ro, una nuova occasione. Perché Massimo Piloni, il dodicesimo per eccellenza del calcio, una vita all’ombra di Dino Zoff, figurina Panini introvabi­ le, lascia scorrere a 67 anni parole intrise di orgo­ glio e dignità quando descrive la sua dolorosa via crucis: «Hanno già messo all’asta la casa dove vivo con mia moglie Rossana, la prima volta a ottobre è andata deserta. Ma la seconda vendita è dietro l’angolo. Ho de­ biti pregressi, due fallimenti al­ le spalle, viviamo con 900 euro al mese, io mia moglie, più mio figlio che non trova un lavo­ ro…».
E se le porteranno via la casa? «Andremo ad affittarci una stanza da qualche parte, come tanti stranieri che vivono in Ita­ lia. Se dovrò, lo farò con tutto il mio orgoglio. La vita continua lo stesso».
Ma perché la sua si è fermata? «Non lo so, forse perché ho vis­ suto in un mondo di furbi e io sono stato l’unico sempliciotto.
Mi sono fidato di certa gente. Ma io ho sempre fatto del bene a tutti, non ho nemici, ho aperto le porte di casa a chi aveva bisogno. Eppure evidentemente ho sbagliato tutto. I guai sono cominciati nel 2004 dopo l’esperienza col presidente Luciano Gaucci a Ca­ tania. Andai alla Sambenedettese a fare il prepa­ ratore dei portieri nell’anno in cui il patron ven­ dette il club e i nuovi dirigenti mi emarginarono praticando il mobbing. Non mi pagavano e mi costringevano a venire da Ancona tutti i giorni e dovevo pure firmare in segreteria. Qualcosa di umiliante. Durò quattro mesi. In società c’erano Scaringella, Dossena, il procuratore D’Ippolito.
Ballardini non potè far molto per me. Ero diven­ tato un pupazzo. Ma non è stato solo questo…».
E cos’altro? «Nel 1975 ero a Torino ed ero amministratore di una società immobiliare con negozi gestiti da mogli di soci. Dovetti rispondere io dei debiti e dovetti vendere due appartamenti e mezzo per ripianare le pendenze, dagli amici ricevetti solo assegni protestati. L’inizio del declino lo farei ri­ salire a quel periodo lì. Poi nella mia vita ho fatto anche il rappresentante di registratori di cassa.
Mi misi per un periodo in proprio rilevando la mia zona di competenza, ma nel 1995 per ben due volte mi rubarono i macchinari. I soci non mi aiutarono e, finché fu possibile, pagai le rate di un finanziamento dando pure il quinto dello sti­ pendio. A un certo punto non ce l’ho fatta più ed eccomi arrivato a questo punto. Ho 7­8 chili di bollette non pagate nell’altra stanza, quando posso pago quella del gas per cucinare. Non pos­ so permettermi il bollo dell’auto da 3 anni, e di­ fatti non ho più la macchina. Sto in casa tutto il giorno, esco solo per andare a prendere i nipotini all’asilo».
E il calcio, a un certo punto, le ha voltato le spalle.
«Sì, si è dimenticato di un suo figlio che ha dato tutto se stesso, ha vissuto per gli altri. Ho pagato troppi pranzi a troppa gente. Posso ringraziare i Gaucci, che con me sono stati sempre ecceziona­ li, e soprattutto il mio grande amico Sergio Brio, presentatomi da Pietro Anastasi ai tempi della Juventus: è l’unico in questi anni ad avermi dato un aiuto concreto, lui è un grande uomo. Gli ami­ ci dal cuore grande esistono, mi ci dal cuore grande esistono, mi fido solo di lui. Mi mandava in tv facendomi prendere un bel gettone e ha organizzato a Ro­ ma una cena in mio onore (in programma stasera alle 20.30 al ristorante «I Meloncini» di viale Tor di Quinto, durante la serata il presentatore Mario Mattioli farà salire sul palco gli ex di Roma, Lazio e Juventus Spinosi, Giannichedda, Cande­ la, Nela, Cordova, Chierico, Marcolin, Fiore, Cesar, France­ schini, Orsi, Caso, Venturin, Giordano, Felice Pulici e Viola davanti a 250 persone, ndr) con tanti ex giocatori che non vedo da anni. Saranno momen­ ti molto emozionanti». Nessun club, nessun collega, nessun allenatore l’ha più chiamata? «Nessuno. Promesse, ma poi il nulla. A 67 anni sono sì disperato, ma lucido mentalmente. Posso lavorare, però certo non voglio farlo a dispetto dei santi. Mi interessa soprattutto che mio figlio Aldo possa trovare un posto di lavoro. Ha avuto una parentesi in una cooperativa che si occupava di pulizie, ma poi l’attività non è più proseguita.
Che devo dire? Potrei andarmene presto, ho una certa età e non rifuggo la realtà, ma almeno se devo andare voglio farlo con la certezza di non lasciare la mia famiglia nelle difficoltà. Dei por­ tieri che ho tirato su, da Iezzo a Storari, da Maz­ zantini a Pagotto fino a Castellazzi, ne ho sentiti pochi in questi ultimi anni. Ogni tanto mi chia­ mano soltanto Cavaliere, Aridità e Aprea. Mi pia­ cerebbe ancora un’esperienza all’estero con To­ shack, un grande allenatore che conobbi a Cata­ nia e che seguirei ovunque». Nella sua vita di calciatore ha vissuto tanta panchi- na, ma anche gioie vere come quelle di Pescara.
«Mi si conosce per aver fatto per tre anni il vice di Dino Zoff. Sono cresciuto in bianconero. Heri­ berto Herrera mi fece fare quattro presenze in panchina quando ero solo un ragazzino. Ma la mia disgrazia in seguito è stata quella di romper­ mi lo scafoide della mano destra prima della se­ conda finale di Coppa delle Fiere contro il Leeds.
La Juventus vendette Tancredi alla Ternana e prese per sostituirmi Carmignani, che poi scam­ biò con Zoff. Boniperti disse di me che ero il futu­ ro della Juve, poi le cose andarono diversamente e io finii dritto in un vicolo cieco, ma garantivo comunque alte percentuali di affidabilità da se­ condo. Non era poco in una società come la Ju­ ve».
Zoff, e sono i tabellini a testimoniarlo, non le concesse spazio: tre scudetti e zero presenze. Le han- no dedicato pure uno spettacolo teatrale («Perseverare humanum est») in cui lei non è più un giocatore ma la metafora dell’eterno gregario. «Non voglio rivangare il passa­ to a 67 anni. Dino è stato un grandissimo portiere. Dico solo che ci restai molto male con lui quella volta in cui si giocò un’amichevole ad Ancona, la mia città, e lui non volle cedere il posto. Quel giorno venne mia mamma Anna Maria, che oggi ha 92 anni, e mia moglie si fece 600 chilometri per esserci. Non giocai neanche un minuto. Una delusione come fosse ieri. A Pe­ scara invece andai grazie al mio padre putativo Tom Rosati: ero diventato un punto di riferi­ mento, vincemmo il campionato di Serie B, i tifo­ si mi volevano bene. Poi conclusi la carriera tra Rimini e Fermo».
Rimpianti, tormenti, occasioni perse. Ha pure pensato di farla finita? «Ci ho pensato spesso, ci penso talvolta anche adesso, se non ci fosse stata mia moglie Rossana probabilmente lo avrei già fatto. Lei è l’unica don­ na che può stare accanto a mia madre: ha vissuto nell’agio e sa vivere con poco. Una vera compa­ gna per la vita».
E oggi, nel momento di massima difficoltà, che sogno coltiva dentro? «Sogno che la sfortuna finisca e un futuro sereno per la mia famiglia. Per il resto Massimo Piloni ha il suo orgoglio e la sua dignità, e non vuole chie­ dere l’elemosina a nessuno».