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 2015  dicembre 18 Venerdì calendario

Quando non si ha niente da dire

Ogni tanto succede, a me succede spesso, di aver l’impressione di non aver niente da dire, cioè non di non aver niente da dire, di non esser più capace di scrivere niente, cioè non di non esser capace di scrivere niente, di non esser capace di scrivere niente di bello, cioè non di non esser capace di scrivere niente di bello, di non aver neanche più la forza di mettermi lì, al computer, aprire un file per raccontare una cosa che magari dopo vien fuori bella e contiene magari qualcosa da dire.
Quando mi succede di andare in giro a parlare della scrittura, una delle cose che ripeto più spesso è una cosa che sembra abbia detto Charles Bukowski, che quando gli han chiesto cosa serve per scrivere lui sembra abbia risposto che per scrivere servon due cose: una macchina da scrivere e una sedia. Delle volte è difficile trovare la sedia, sembra dicesse Bukowski, e io, certe volte, ho l’impressione di essere in quella condizione lì in cui si trovava Bukowski che è difficilissimo trovare la sedia.
Allora mi viene in mente una cosa che ha scritto Viktor Šklovksij, che una volta ha scritto che tutte le volte che cominciava a scrivere un libro, aveva l’impressione che scriverlo fosse un’impresa al di sopra delle sue forze e poi, a forza di dài e dài, a forza di macchine da scrivere e di sedie, arrivava un giorno che aveva tra le mani il libro che aveva scritto.
E una cosa simile mi sembra succeda anche a me quasi tutti i giorni che io, tutti i giorni, mi sveglio al mattino mi dico «È impossibile che io vada a correre, oggi», e dopo poi vado a correre. E tornato da correre che mi viene addosso una cosa che mi dico «È impossibile che trovi quella forza lì di mettermi al computer per tirar fuori qualcosa», e ormai, son degli anni che mi succede, io questa cosa qua non la trovo scoraggiante, la trovo incoraggiante, quasi, un segno che forse alla fine anche questa volta salterà fuori qualcosa.
E mi ripeto una cosa che ho letto non so più dove che diceva, più o meno «Tu cosa fai per vivere?». «Stacco il wi-fi». E mi torna in mente il decalogo di Augusto Monterroso, che ha scritto un decalogo dello scrittore in dodici punti (se a uno due non gli piacevano, li poteva scartare) e il primo diceva: «Quando hai qualcosa da dire, dillo; quando non ce l’hai, anche. Scrivi sempre». E il quinto diceva: «Sebbene sembri strano, scrivere è un’arte; essere scrittore è essere un artista, come il trapezista, o il lottatore per antonomasia, che è colui che lotta con la lingua; per questa lotta esercitati giorno e notte». E il nono diceva: «Credi in te, ma non troppo; dubita di te, ma non troppo. Quando hai un dubbio, credi; quando credi, dubita. Questo è alla base dell’unica vera sapienza che può accompagnare uno scrittore» (la traduzione è di Barbara Bertoni).
E delle volte mi ricordo anche di Auden, il poeta, che una volta ha scritto che «agli occhi degli altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia, ai propri lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre» (la traduzione è di Gabriella Fiori). E questa settimana mi è venuto molto in mente un poeta che faceva il fotografo, che si chiamava Mario Dondero e che stava al mondo in un modo così gentile che era bello guardarlo.