Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2015
L’accordo libico, un po’ di storia per capirlo meglio
Si va verso un nuovo intervento in Libia? Skhirat, dove ieri è stato firmato l’accordo per un governo di unità nazionale, è un luogo storico. Qui, nel 1971 i cadetti dell’accademia aprirono il fuoco durante un festeggiamento a palazzo reale.
Uccisero 200 persone in un tentativo di golpe contro re Hassan II. Vedremo se l’amena località marocchina questa volta entrerà nella storia per un’intesa che prima ancora di essere siglata ha già incontrato seri intoppi: entrambi i capi dei due Parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk hanno dichiarato che i firmatari non rappresentano le due Camere e le maggiori fazioni armate della capitale sono contrarie.
“Chi rappresenta chi” in Libia è complicato da decifrare: le fazioni sono sostenute dai “pompieri incendiari”, un corteo di emiri e sceicchi che a parole appoggiano la pace e poi fomentano la guerra. L’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti di Tripoli, gli Emirati, per appoggiare Tobruk, si sono persino comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn; senza contare la Turchia che sostiene Misurata, la città-stato più agguerrita, ma anche i jihadisti.
Pur di fare questo accordo, con la mediazione dell’inviato Onu Martin Kobler, si passa sopra a una realtà forse inestricabile, come del resto è stato abbastanza chiaro anche alla conferenza di Roma. Questo governo difficilmente si insedierà a Tripoli, almeno per il momento. L’unico scopo dell’intesa è che un esecutivo di unità nazionale potrà forse chiedere un intervento internazionale contro il terrorismo dell’Isis e magari far fuori le fazioni più estremiste legate ad al-Qaeda.
Se poi si riuscirà un giorno a riunificare la Tripolitania e la Cirenaica, ovvero i pozzi di petrolio, sarà davvero la quadratura del cerchio, anche se personaggi come il generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, non appaiono nel novero di coloro che possono riconciliare la Libia.
All’Occidente prudono le mani, almeno a parole. Dopo i raid aerei del 2011 contro Gheddafi avviati da francesi, britannici e americani, che poi abbandonarono la Libia al suo destino, si intensificano le voci di un intervento. Gli inglesi, secondo il “Times”, sarebbero disposti a mettere in campo mille uomini in un task force di seimila soldati sotto il comando italiano mentre alcuni media libici hanno segnalato l’arrivo di un piccolo nucleo di forze speciali americane sbarcato in borghese in un piccolo aereoporto dell’interno. Insomma inglesi e americani, dopo avere frantumato la Libia sotto la spinta decisiva della Francia, sarebbero disposti a impegnarsi a rimetterne insieme i pezzi con la nostra partecipazione. Quanto ai francesi, impegnati nel Levante, hanno mandato segnali contraddittori ma nelle scorse settimane avevano mobilitato i caccia Rafale mentre lungo la Sirte i droni sorvolano da tempo silenziosamente la coste basse del Golfo per individuare le postazione del Califfato.
La Russia sarebbe disposta a dare il via libera come contropartita al suo schieramento in Siria a sostegno di Assad: di fatto con i missili tiene sotto tiro il Levante e si è capito dalla parole dello “zar” Putin che Mosca è disposta far pagare duramente al “sultano” Erdogan l’abbattimento del caccia Sukhoi. Per ora il silenzio della Nato, di cui la Turchia fa parte da più di sessant’anni, è eloquente.
L’accordo di Skhirat, accompagnato da un discorso del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha coinciso con il 5° anniversario della morte di Mohammed Bouazizi, il giovane ambulante tunisino che per protesta si diede fuoco nella remota località di Sid Bouzid il 17 dicembre 2010. Fu l’inizio delle primavere arabe affondate ovunque nel sangue, tranne che in Tunisia. Sono caduti i raìs ma resistono sceicchi, emiri, “sultani” e “zar”, un corteo di governanti assai poco rispettosi dei diritti umani, del progresso, dei destini di un’intera regione di giovani disoccupati. È la versione del Gattoppardo in salsa mediorientale: tutto cambia perché nulla cambi.