il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2015
Trentamila sigarette e 82 pesos: così nacque “Cent’anni di solitudine”
Cominciò a scriverlo cinquant’anni fa, lo finì nel 1966 – dopo 18 mesi di lavoro chiuso in casa –, uscì il 30 maggio del 1967 quando la beatlesmania contagiava gli spagnoli e si avvertiva il senso di una nuova epoca. Nel 1970 fu tradotto in inglese, nel 1982 gli procura il Nobel, consacrandolo a “Don Chisciotte del sud globale”. E pensare che l’autore di Cento anni di solitudine definì “di merda” il contratto fattogli dal suo primo editore americano, sia per i suoi quattro romanzi precedenti (appena 1.000 dollari di compenso) che per il libro che fu recensito subito come un capolavoro dalle più importanti riviste americane e vendette poi 50 milioni di copie (con un anticipo di appena 5.000 dollari).
A raccontare la genesi e le felici peripezie di un romanzo “sexy, divertente, sperimentale, politicamente radicale e popolare al tempo stesso” è uno scrittore ed editore americano, Paul Elie, che su Vanity Fair America narra anche del suo lungo incontro con la nota agente letteraria di Márquez, Carmen Balcells, chiamata “La Mamà Grande”, morta poche settimane dopo l’intervista. L’incipit è un’immagine dello studio messicano di Márquez, le sigarette sul tavolo (ne fumava 60 al giorno), i cd di Debussy e Bartok, sui muri le carte storiche della città caraibica che ispirò Macondo.
Elie poi ricorda l’immensa popolarità di Márquez, il cordoglio alla morte da parte di Clinton e di Obama, le parole dello studioso Ilan Stavans – che ha confessato di aver letto il romanzo 30 volte – secondo cui il libro “ha ridefinito non solo la letteratura americana, ma la letteratura in sé”. Ma poi il racconto diventa la storia di Gabo e del suo romanzo.
Nato nel 1927 nel villaggio di Aracata, scuole in un sobborgo di Bogotà, Márquez abbandona gli studi di Legge per diventare giornalista. Diventa inviato in Europa quando la dittatura comincia a essere più pressante, poi quando Castro prende il potere a Cuba firma con un’agenzia di stampa del nuovo governo comunista e si stabilisce a New York, in una stanzetta sopra un locale invaso da topi. Lascia quando la linea filocomunista diventa soffocante e il suo editor viene sostituito, e decide di dedicarsi solo ai romanzi. Poi l’incontro che gli cambierà la vita, quello con l’agente letterario Carmen Balcells. Trova così un editore statunitense, Harper & Row, che gli dà pochi soldi per i primi quattro romanzi e gli opziona il successivo.
Márquez firma scontento, poi parte per una vacanza al mare ad Acapulco con moglie e figlio su una Opel bianca, ma a un certo punto si blocca e torna indietro. Ha avuto una sorta di folgorazione sul suo prossimo romanzo. Si mette alla macchina da scrivere e non si alza per 18 mesi. E mentre lui fa leggere i capitoli agli amici, sua moglie Mercedes impegna ogni oggetto della casa per avere un po’ di contante, tanto che quando vanno all’ufficio postale per mandare il manoscritto alla Editorial Sudamericana non hanno neanche gli 82 pesos per il francobollo.
Ha fumato in quel periodo oltre 30.000 sigarette e speso circa 10.000 dollari, e la moglie gli chiede: “E se dopo tutto questo, il romanzo fa schifo?”. Il libro, al contrario, vende solo in Argentina 80.000 copie nella prima settimana di uscita. Lo leggono gli operai, le casalinghe e i professori, lo leggono anche le prostitute. Cento anni di solitudine viene acclamato come il romanzo capace di unificare la cultura di lingua spagnola, a lungo divisa tra Spagna e America latina, città e villaggi, colonizzatori e colonizzati.
Quando nel 1970 esce negli Stati Uniti (tradotto da Gregory Rabassa, suggeritogli dal suo amico Cortàzar), e con una lussuosa copertina verde, The Book Review parla di una “Genesi sudamericana”, mentre Salman Rushdie definirà come “proprio” il mondo di Márquez.
Elie ricorda poi due curiosità: il fatto che dal libro non si sia mai tratto un film, forse per le cifre astronomiche dei diritti (ma pare che Márquez disse a Harvey Weinstein che i diritti li avrebbe dati a lui e Giuseppe Tornatore, se il film fosse stato fatto, però a suo modo: Weinstein ammetterà che si trattava di un’impresa impossibile). E il pugno in faccia ricevuto nel 1976 da Mario Vargas Llosa, sul quale lo scrittore sudamericano non volle mai ritornare, salvo parlare con grande affetto di Márquez in una intervista recente (in cui racconta anche il loro progetto di scrivere insieme un romanzo sulla Guerra del 1828 tra Perù e Colombia).
Nell’ultima parte del lungo articolo Elie ritorna sul suo incontro con Carmen Balcells, che ricorda il perfetto mix tra fantasia e realismo di Márquez e spiega come, nonostante i debiti e le numerose offerte d’acquisto (anche dall’Italia, da Riccardo Cavallero per Mondadori), non ha voluto ancora vendere la sua agenzia letteraria. Morta Balcells chi rappresenterà Cento anni di solitudine? “Per ora – conclude Elie – non è dato saperlo. Ma i Buendias e il loro villaggio sono ben rappresentati: siamo noi i loro discendenti e loro sono vivi e vividi come lo sciame di farfalle gialle tra le pagine del magnifico romanzo di Márquez”.