il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2015
Da Gelli a Berlusconi fino a Renzi, per Travaglio è sempre la stessa storia
Licio Gelli, prematuramente scomparso ad appena 96 anni, non voleva il golpe. Il suo Piano di Rinascita Democratica, così demonizzato a parole e così plagiato nei fatti quasi da tutti i governi che si sono succeduti da quando fu scritto a più mani alla fine degli anni 70, non si proponeva certo di sovvertire la partitocrazia che consentiva a lui e ai suoi compari di fare il bello e il brutto tempo. Voleva, più semplicemente, stracciare il velo dell’ipocrisia e costituzionalizzare nero su bianco le prassi incostituzionali della Casta, abrogando o imbrigliando i poteri di controllo e di garanzia (Parlamento, magistratura, stampa e tv) per evitare che qualcuno, un domani, potesse davvero applicare fino in fondo la Costituzione. A cominciare dall’articolo 3 (“Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”), bestia nera di ogni regime. Il pericolo da lui paventato si materializzò nel 1992, causa indebolimento della Banda Larga, con Mani Pulite: unica parentesi in 70 anni di Repubblica in cui la legge fu davvero uguale per tutti. Una rivoluzione, come aveva preconizzato Ennio Flaiano. Ma fu un attimo: tempo due anni e arrivò B., piduista con tessera n. 1816.
Da allora, con la scusa del “primato della politica”, la Banda Larga ha sempre tentato con ottimi risultati di controllare (o financo di scegliersi) i controllori. La magistratura indipendente e la stampa libera, dunque la Costituzione, sono i bersagli fissi di tutte le classi dirigenti politiche e finanziarie, nazionali e internazionali, e delle loro “riforme”. Anche oggi, nell’era della finta rottamazione renziana. Lasciamo da parte i ridicoli attacchi del Leopoldo ai pochi giornali allergici all’ottimismo obbligatorio del “tutto va ben madama la marchesa” e parliamo di cose serie. Da mesi il procuratore di Arezzo Roberto Rossi indaga sul dissesto di Banca Etruria, molto vicina alla famiglia Boschi, dopo le notizie di reato emerse dalle ispezioni di Bankitalia, che ha multato 18 amministratori dell’istituto aretino, fra cui il vicepresidente padre della ministra. Nessuno – pm, premier, ministra, Csm – ha avvertito l’urgenza di sciogliere quel legame per evidenti motivi di incompatibilità. Il problema si pone solo ora che Il Fatto l’ha scoperto. Fino a prova contraria, Rossi è un pm integerrimo che obbedisce solo alla legge. Ma s’è messo in imbarazzo da solo: se ora invia un avviso di garanzia a Pier Luigi Boschi, qualcuno lo sospetterà di volersi rifare una verginità; se non lo fa, altri penseranno ai suoi trascorsi a Palazzo Chigi.
Controllare i controllori: siamo sempre lì. Lo stesso sospetto sorse quando pubblicammo le telefonate intercettate fra Renzi e l’amicissimo comandante toscano della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, che avrebbe dovuto indagare sul Comune di Firenze quando l’attuale premier era sindaco. E che dire dell’avvocato Giuseppe Fanfani, nipote di Amintore, anche lui aretino, paracadutato dal Pd al Csm a vigilare sui magistrati mentre il suo studio legale (ora gestito dal figlio) assiste alcuni indagati per lo scandalo Etruria? Nei giorni scorsi la maggioranza di governo, prima di arrendersi all’accordo con i 5Stelle, ha infilato nella terna dei candidati alla Consulta il presidente uscente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri, 75 anni. Fino a prova contraria, Squitieri è un magistrato cristallino: ma era proprio necessario candidarlo subito dopo che la Corte dei Conti ha frettolosamente archiviato, con una rapidità senza precedenti, l’indagine appena aperta sulle note spese di Renzi sindaco? Senza i franchi tiratori di Pd e FI, oggi avremmo tre nuovi giudici costituzionali di stretta osservanza renziana. È grazie ai 5Stelle che ne sono passati solo due (il pd Barbera e il centrista-vaticano Prosperetti), mentre il terzo (Modugno) è un costituzionalista tutt’altro che grillino, di cui nessuno conosce le idee politiche: l’unico che avesse i requisiti, dunque l’unico che nessun partito voleva. Controllare i controllori, sempre questo è il problema.
Abbiamo più volte raccontato come B. riuscì a sfangarla nel processo per corruzione giudiziaria di David Mills, che rischiava di portarlo in galera ben prima del caso Mediaset se fosse arrivato in fondo prima della prescrizione. C’era tutto il tempo per evitarla. Ma prima il Tribunale di Milano presieduto da Livia Pomodoro, poi la Corte d’Appello diretta da Giovanni Canzio assecondarono, con scelte discrezionali e talora mai viste prima, la melina dei suoi avvocati. Risultato: prescrizione in appello e salve le larghe intese che sostenevano il governo Monti e di lì a poco avrebbero rieletto Napolitano e partorito il governo Letta. Fino a prova contraria, quelle scelte furono adottate in perfetta buona fede. Ma possibile mai che ora la Pomodoro, anziché godersi la meritata pensione, diventi presidente della bad bank creata dal governo per i quattro istituti appena salvati dal crac con tanti saluti ad azionisti, obbligazionisti e risparmiatori? Possibile mai che Canzio ottenga dal governo (coi suoi coetanei) un anno di proroga dell’età pensionabile (da 72 a 73 anni) e dalla commissione del Csm l’indicazione a primo presidente della Cassazione? A menare le danze dei giochi correntizi di Anm e Csm, com’è emerso più volte, è l’ex pm Cosimo Ferri, signore delle tessere di Magistratura Indipendente (sic): che ci fa Ferri ancora sottosegretario alla Giustizia, prima con Letta in quota B. e ora con Renzi in quota “tecnici” (le pazze risate)?
Controllare i controllori, sempre e comunque. Gelli lo disse e lo scrisse, passando per golpista. Tutti gli altri, zitti zitti, lo fanno e passano per democratici.