la Repubblica, 18 dicembre 2015
Guardate le foto delle torture nelle prigioni siriane e poi rispondete: possiamo allearci con Assad?
I morti parlano. Almeno certi morti, quelli che accedono ai media. Mercoledì il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato con grande evidenza l’immagine atroce dei cadaveri scarniti di alcune vittime del regime siriano, uccise nelle carceri di Bashar al-Asad. Quello stesso regime su cui, dopo aver cercato di abbatterlo, europei e persino americani fanno ormai conto come cobelligerante di fatto contro lo Stato Islamico.
Questa fotografia ha una lunga storia. Lo scatto è infatti tratto da un archivio di oltre 50mila immagini scattate fra il maggio 2011 e l’agosto 2013 da un locale fotografo forense, poi fuggito in Occidente. Quest’uomo, protetto dallo pseudonimo “César”, ha messo il suo catalogo dell’orrore – testimonianza delle torture somministrate nelle galere del regime di Damasco – a disposizione del Movimento siriano di opposizione, che nel marzo 2015 le ha trasferite a Human Rights Watch, reputata organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani. Dal 13 al 16 luglio, il Parlamento europeo ha ospitato 35 fotografie dell’archivio César. Il 15 settembre il tribunale di Parigi ha avviato sulla base dei documenti in questione un’indagine preliminare per “crimini contro l’umanità”. Il 7 ottobre è uscito in Francia un libro- racconto fotografico della giornalista Garance Le Caisne con l’anonimo transfuga di Damasco (“Opération César, au coeur de la machine de la mort syrienne”, edizioni Stock). Infine, il 16 dicembre, Human Rights Watch ha prodotto un rapporto molto dettagliato al riguardo, avendo investigato in profondità su 27 vittime di cui sarebbe riuscito a ricostruire l’identità.
La foto riprodotta da Le Monde è raccapricciante ed evocativa. I cadaveri sparsi di una dozzina di poveri Cristi testimoniano la perversa violenza del regime degli al-Assad, che nella sua lunga storia ha dimostrato di non conoscere limiti nella repressione delle rivolte e nella soppressione dei nemici veri o presunti. È importante che questi documenti non vengano nascosti al pubblico. È altrettanto necessario contestualizzarne la diffusione e valutarne le eventuali intenzioni e conseguenze strategiche.
Il quotidiano parigino nota come il rapporto di Human Rights Watch esca alla vigilia dell’ennesimo vertice internazionale sulla Siria, a New York, che potrebbe innescare un processo negoziale fra governo di Damasco e opposizioni di vario colore sotto la tutela della maggiori potenze. La strategia di comunicazione di questa e altre organizzazioni umanitarie punta infatti a cogliere l’onda di attenzione mediatica, assai fluttuante, per moltiplicare l’effetto di annuncio di denunce che altrimenti troverebbero scarsa eco. Lo stesso Human Rights Watch avverte: «Coloro che spingono per la pace in Siria devono assicurarsi che i crimini cessino». Soprattutto, i responsabili politici dei massacri «devono renderne conto».
La scelta di anticipare il rapporto a Le Monde s’inscrive nella medesima logica: la Francia è stata in prima linea nel sostenere chiunque – jihadisti inclusi – puntasse a rovesciare il regime di Damasco. E se dopo la strage di Parigi Hollande ha virato verso l’inevitabilità di servirsi di chiunque si batta contro lo Stato Islamico – Bashar al-Assad compreso – questo non significa il venir meno dell’ostilità di fondo nei confronti del presidente siriano e del suo clan.
Questa vicenda ricorda infine che nella mischia siro-irachena è arduo scernere “buoni” e “cattivi”. Vi troviamo semmai diverse gradazioni dell’orrore. Più rare persone di buona volontà, che però contano poco, almeno fintanto che la guerra non cesserà. In chiaro: se mai sconfiggeremo lo Stato Islamico, al suo posto incroceremo – di sicuro per una prima fase, ma forse molto a lungo – strutture e regimi non troppo dissimili. Non vale solo per Damasco. Basterebbe ad esempio comparare l’amministrazione della giustizia sotto il “Califfo” con quella gestita dal sovrano saudita, massimo alleato dell’Occidente nella regione, per scoprire che si svolge secondo regole e abitudini analoghe. Decapitazioni pubbliche comprese. Ma in questo caso i morti non parlano. E i nostri media, in genere, tacciono. O guardano altrove.