La Stampa, 18 dicembre 2015
Greenspan si dice pessimista sulla crescita di Europa e Usa: «I mercati salgono perché l’incertezza sui tassi è finita. Ma mancano produttività e programmi assistenziali»
«Sono pessimista sul futuro della crescita negli Stati Uniti, se non si interverrà sui programmi assistenziali», e la prospettiva è anche peggiore per l’Europa, dove la produttività è praticamente ferma. Cala il gelo nelle austere sale del Council on Foreign Relations di New York, quando Alan Greenspan esprime questo giudizio. Quello che Bob Woodward aveva soprannominato “il maestro”, presidente della Federal Reserve dal 1986 al 2006, è stato invitato a discutere le prospettive globali, dopo la decisione dei suoi successori alzare il costo del denaro.
Greenspan, rispondendo alle domande di Steve Liesman della Cnbc e del pubblico, spiega così la reazione positiva dei mercati all’aumento dei tassi: «L’incertezza è svanita. Quando intervieni sul costo del denaro, la decisione fondamentale da prendere è il livello di rischio che vuoi trasmettere al mercato: puoi agire in maniera prevedibile e progressiva, segnalando in anticipo le tue mosse, o puoi scegliere la via dello shock. Non vuoi gonfiare troppo la bolla speculativa, per evitare che scoppi, ma neanche sgonfiarla troppo, per non sopprimere la crescita. La Fed ha fatto quello che aveva segnalato, e i mercati di aspettavano. Quindi la risposta è stata positiva, perché l’incertezza è finita».
Greenspan per alcuni è l’eroe che ha salvato l’economia americana per vent’anni, e per altri è il responsabile della crisi del 2008, che è avvenuta due anni dopo la sua uscita di scena, ma sarebbe stata incubata dal suo mancato intervento per frenare la speculazione sui mutui subprime. Lui si difende così: «Le bolle non sono di per sé negative. In altri casi, come il 2000, hanno aiutato la crescita e sono scoppiate senza avere ripercussioni sui mercati. Quelle del 1929 e del 2008 sono state disastrose, perché erano associate a livelli insostenibili di debito».
Il problema ora è capire se il rialzo dei tassi aiuterà o meno l’economia, ma Greenspan gira l’argomento verso un’altra direzione: «Quello che frena la crescita, negli Stati Uniti come in Europa, è la bassa produttività. Aumenta in media dell’1%, ma in molti casi è sotto lo 0,5%, che significa solo un dato statistico irrilevante. La ragione, in America ma non solo, sta in un sistema fiscale instabile. Gli entitlements, cioé i benefici dello stato sociale, crescono in media tra l’8 e il 9% all’anno. Per sostenerli avremmo bisogno di un aumento del pil fra il 3,5 e il 4%, mentre ora siamo a mala pena sopra il 2%. Stiamo investendo sugli anziani, non sui giovani che rappresentano il nostro futuro. Ogni dollaro che va negli entitlements è un dollaro sottratto al risparmio. Ma il risparmio è la fonte degli investimenti, che così vengono a mancare. Di conseguenza non sale la produttività oraria, e l’economia non cresce». Se questo ragionamento vale per gli Stati Uniti, immaginiamoci per l’Europa e l’Italia, dove lo stato sociale è molto più ampio e oneroso.
Sullo sfondo, poi, ci sono altre minacce globali: «La frenata della Cina dipende dal fatto che, scusate la parola, sta diventando sempre più capitalista. È circa 50 anni in ritardo rispetto a noi, e finché si è concentrata su sviluppo e consumo ha rappresentato un importante motore globale. Ora però sta spostando la sua attenzione sulla finanza, che non sa gestire».
L’economia digitale non basta a rilanciare la crescita, perché è cambiata rispetto ai suoi tempi del boom di internet: «Questa è l’era dei social media, ma nessuno sa davvero misurare quanto aggiungono all’economia. Forse nulla, perché ritrasmettono solo contenuti già prodotti».
Anche la diseguaglianza economica, che ha fatto tanto discutere negli ultimi anni, secondo Greenspan è «una funzione della produttività. Quando crescevamo a ritmi più veloci, nessuno se ne accorgeva». Per tornare a farlo, il “maestro” offre una sola ricetta: «Serve un profondo mutamento culturale, come quello promosso da Roosevelt, e fallito da Thatcher e Reagan. Ma finché non toccheremo gli entitlements, e quindi il risparmio, gli investimenti e la produttività, non riusciremo a crescere».