La Stampa, 18 dicembre 2015
Non possiamo ignorare Putin, nonostante la sua arroganza
Commentando l’entrata in scena di Vladimir Putin in occasione della tradizionale conferenza stampa di fine anno, la Bbc definisce il suo incedere, poggiato sul lato sinistro mentre il braccio destro rimane libero, «stile da pistolero»: lo stile di chi vuole essere pronto ad estrarre l’arma dal fodero.
Quello che è certo è che il Presidente russo ha ulteriormente accentuato i toni «macho» che lo caratterizzano. Se l’incedere ricorda quello di John Wayne, il linguaggio ricorda quello di Clint Eastwood. La sua sfida alla Turchia («provateci a violare lo spazio aereo siriano») ricorda il famoso «make my day», che nella versione italiana del film «Sudden impact» era stato reso con: «Coraggio, fatti ammazzare». E naturalmente in un profilo veramente compiuto del «macho» non può mancare la volgarità: «I turchi hanno deciso di leccare gli americani in un certo posto».
Accentuando un tono arrogante, peraltro non nuovo, Putin vuole ostentare sicurezza e nella sostanza dire al mondo, ma in primo luogo al suo popolo, notoriamente sensibile a questa «rivincita della Russia», che bisogna fare i conti con Mosca, e che la Russia non può essere messa in un angolo, esclusa dalla «serie A» delle relazioni internazionali.
Il problema è che, al di là del bullismo putiniano, questo è oggettivamente vero. Non tanto per la forza della Russia – un Paese con stentati tassi di crescita e una dipendenza malsana da materie prime, soprattutto petrolio e gas, con prezzi in forte caduta – quanto per la debolezza, le incertezze e le divisioni altrui.
In quattro anni non siamo riusciti, americani ed europei, a fermare il dramma della Siria, dato che non si è voluto prendere atto che con Assad bisognava raggiungere un compromesso dato che non poteva essere sconfitto militarmente a meno di un nostro coinvolgimento diretto sicuramente più impegnativo e con prospettive ancora meno promettenti di quelle che hanno caratterizzato gli interventi in Afghanistan, Iraq e Libia. E nemmeno si è riusciti a sgominare i jihadisti di Daesh – che qualcuno continua a definire riduttivamente terroristi, dimenticando che un gruppo di terroristi che controlla per anni un territorio diventa qualcosa d’altro, uno pseudo-stato, o piuttosto un proto-stato, visto che più il tempo passa più diventa possibile un suo consolidamento.
Vladimir Putin ha visto in questo vuoto una straordinaria occasione di fare avanzare la sua politica di storica rivincita contro l’umiliazione subita con la fine della Grande Potenza sovietica.
Si impone a questo punto una non facile riflessione politica, basata su una domanda di fondo: Siamo in grado di respingere questa pretesa di rinnovato protagonismo russo?
Chi se non Mosca, in parallelo con Teheran, può garantire un accordo che comporti in prospettiva un’uscita di scena di Assad? E per quanto riguarda il contrasto militare allo Stato Islamico, davvero pensiamo che sia preferibile contare su «alleati alla rovescia» come turchi e sauditi piuttosto che su un’azione militare come quella russa, certamente decisa, anche se tutta da discutere in tema di scelta di obiettivi e coordinamento?
Il gioco di Putin non è certo il nostro, e non dovremmo ora sopravvalutare la rinnovata presenza internazionale della Russia così come dopo la caduta del comunismo qualcuno, soprattutto oltre oceano, aveva pensato che fosse possibile escluderla completamente ignorandone interessi ed esigenze di sicurezza.
Il realismo però impone in primo luogo di situare le minacce in una sequenza che ci permetta di impiegare efficacemente, per affrontarle, mezzi che non sono certo illimitati. In concreto, non sembra possibile negare che per l’Italia sia assolutamente prioritario affrontare le minacce alla sicurezza e alla stabilità che provengono da un arco che va dalla Siria alla Libia.
C’è questo – e non i famigerati «giri di valzer» attribuiti alla nostra politica estera – dietro la richiesta italiana a Bruxelles di affrontare sulla base di un’analisi politica, e non con una semplice riconduzione automatica, la questione del rinnovo delle sanzioni alla Russia per la vicenda ucraina.
Non è credibile che l’Italia intenda rompere un fronte comune europeo e tanto meno dare carta bianca alla politica russa nei confronti dell’Ucraina. Per citare l’ammissione di Putin nel corso della conferenza stampa, non ci sta bene che sul territorio di un Paese sovrano vi siano «persone (russi) che svolgono certi compiti, anche di natura militare».
Ma non siamo certo solo noi a tenere conto delle priorità del nostro interesse nazionale nel momento di decidere linee di politica estera che pure dovrebbero confluire in un comune alveo europeo e atlantico. La Germania – per citare una questione di cui si parla proprio in questi giorni – intende portare avanti con la Russia, nonostante le sanzioni, il progetto del gasdotto North Stream 2.
Né Matteo Renzi né Angela Merkel sono sospettabili di «appeasement» nei confronti della Russia, ma entrambi tengono conto, come del resto fanno americani, inglesi e francesi, delle proprie priorità in tema di sicurezza o di energia – priorità il cui perseguimento non ci permette di ignorare la Russia e di escluderla, per quanto inquietanti siano non solo la retorica ma anche le azioni di Vladimir Putin.