Origami, 17 dicembre 2015
Dimenticare Hitler o affrontarne il ricordo?
Il risveglio da un sonno artificiale in Germania è periodico, e sempre più frequente. Nel resto d’Europa quasi nessuno ha letto Lui è tornato, romanzo spiritoso ma non più di tanto di Timur Vermes, che nel 2011 immaginava la resurrezione di Adolf Hitler, riaccolto con entusiasmo dal suo paese che stavolta lo aveva scambiato per un formidabile caratterista. In Germania, dove si è disabituati a fare gli spiritosi sul Führer, il successo è stato consistente. Non sono passati troppi anni dall’uscita di un formidabile saggio di Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione (in Italia edito da Adelphi). Sebald, detto in due righe, è morto in un incidente stradale nel 2001, a 57 anni, subito dopo l’uscita del suo capolavoro, Austerlitz, per il quale sembrava destinato al Nobel. Nel 1997 aveva tenuto una serie di lezioni all’Università di Zurigo sul tema della guerra aerea e la letteratura; nei propositi sarebbero state lezioni di poetica, ma la materia scappò di mano a Sebald ben presto, perché la letteratura e la poetica tedesche, sulla guerra aerea, sono semplicemente assenti. Detto così sembra significare poco, ma la guerra aerea non è altro che la devastazione sistematica e implacabile delle città del Reich, le più belle città medievali del mondo, e dei loro abitanti, che fossero bambini o donne o vecchi. Perché, si chiese Sebald, non c’è stato uno scrittore capace di ricordare e di scrivere? Lo fece Erich Maria Remarque in Tempo di vivere, tempo di morire, ma Remarque aveva abbandonato il cognome di nascita, Remark, per evidenziare le sue dimissioni da tedesco; lo aveva fatto Heinrich Böll in L’Angelo tacque, ma il romanzo sarebbe uscito postumo solo molti anni dopo. Dovevamo dimenticare, niente altro che dimenticare – disse Sebald – cancellare quello che avevamo subito per cancellare quello che avevamo fatto. Era l’unico modo per ripartire.
Il libro provocò molto imbarazzo, non piacque a sinistra e piacque molto all’estrema destra – esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere, commentò Sebald.
Un po’ il destino italiano del sempre frainteso Renzo De Felice. E il destino di un altro gigante del dopoguerra tedesco, Joachim Fest. Fra gli storici del nazismo è fra i più apprezzati al mondo, ma in Germania si prese del revisionista, e peggio, del giustificazionista, perché al centro della sua enorme opera c’è l’idea che Hitler vada sottratto alla dimensione demoniaca e ricondotto a quella umana, altrimenti non si capisce come un’intera nazione lo abbia seguito fino agli abissi dell’anima. Il tocco del diavolo era perfetto in una Germania che aveva deciso di mettersi il passato alle spalle, e di non gettarci sopra nemmeno uno sguardo.
Fest si accomiatò con un’autobiografia. La consegnò all’editore ma era insoddisfatto del titolo, qualcosa di banale come La mia vita. Una mattina, già molto malato, lesse sul giornale la rivelazione dell’avversario di una vita Günter Grass: «Da ragazzo sono stato nelle Ss». Fest chiamò l’editore: «Ho trovato il titolo dell’autobiografia: Io no».