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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Cinquant’anni di moda firmata Laura Biagiotti. «Non mi sono mai presa mai troppo sul serio, non ho mai preso troppo sul serio neanche la moda»

Laura Biagiotti si guarda intorno nel grande studio nel castello Marco Simone, dell’XI secolo a Guidonia, alle porte di Roma, che ha restaurato con certosina pazienza e dove lavora, vive con i suoi cani, tiene i ricordi più cari e la preziosissima collezione di Giacomo Balla: «Eccomi qui nel mio oltre, nel mio Nirvana». Compie cinquant’anni la griffe della «Regina del cachemire» come la definì il New York Times, ed è il momento di fare un bilancio. Davanti a un tè con i wafer: «Sono antichi i waferini, biscotti rassicuranti. Così come la moda, in fondo: rassicurante e consolatoria».
Signora Biagiotti come ha attraversato mezzo secolo?
«Con leggerezza. Non mi sono mai presa troppo sul serio, non ho mai preso troppo sul serio neanche la moda. La forza è stata avere interessi alternativi. E poi la mia religione del lavoro mi ha dato un rigore severo, una disciplina interiore».
Facendo un amarcord dei suoi primi cinquant’anni, quale momento le viene in mente?
«L’Anno santo del 1950. Avevo sette anni, figlia unica, famiglia cattolica. C’era una forte voglia di spiritualità. Andavo dalle Orsoline, restai lì fino al liceo. E poi scelsi di fare lettere antiche, con specializzazione in archeologia cristiana».
Le è mai servito?
«Sì, mi è rimasto dentro l’impegno per lo studio e anche la capacità di far funzionare il circo a tre piste come amo definire il mio mondo: la moda, i genitori anziani, poi mia figlia Lavinia, i lunghi viaggi. Andavo e venivo dagli Stati Uniti come se fosse Frascati. Mi sono sempre sentita come quei giocolieri cinesi che fanno girare i piattini senza farli mai cadere».
Come passò dagli scavi antichi alla moda?
«Mia madre Delia lavorava in una redazione, ci vedevamo poco, era sempre fuori per lavoro. Quando decise di smettere e tornare a casa capì, dopo i primi ciambelloni, che non era fatta per stare ferma. Così iniziò con i vestiti, come hobby. Decisi che dovevo aiutarla e lasciai perdere l’università, mi dissi che l’avrei finita poi. Non ci sono mai riuscita».
Anche lei figlia unica come Lavinia. Che rapporto aveva con sua madre?
«Era una donna eccezionale, di famiglia benestante decaduta, tipo libro Cuore. Avevamo un rapporto come quello che poteva avere il figlio con il faraone Amenofi II, per capirci. Si lavorava fino alle 11 di sera, senza alzare la testa».
Con Lavinia che rapporto ha?
«Alle sei saluto tutti e mi impongo di smettere, con mia madre si lavorava sempre, anche sabato e domenica. Lavinia è cresciuta in mezzo a tutto questo, anche lei ha un grande senso del dovere e una madre ingombrante. Lo so benissimo».
Quando fu la sua prima sfilata?
«Nel 1971 firmo la mia collezione Laura Biagiotti: da Amenofi II allo sbarco sulla luna. Capisco che le donne hanno bisogno di nuovi vestiti, che le aiutino in questo sforzo di conciliare tutto: carriera, famiglia, minestrone, figli, tacco 12».
È riuscita a far girare i piattini senza farli cadere?
«Non è stato facile e quando ho perso mio marito ho dovuto fare Marta e Maria insieme, come la parabola del Vangelo».
Com’era il rapporto con Gianni Cigna, suo marito?
«È stato un amore travolgente. Una condivisione totale anche sul lavoro. Era un grande condottiero. Lo storico viaggio in Cina lo abbiamo voluto insieme e insieme condividevamo la passione per Giacomo Balla. Abbiamo lottato sei anni contro una terribile malattia, poi se ne è andato».
Il suo viaggio in Cina fu un evento memorabile. Che cosa ricorda?
«Avevamo un amico, l’architetto Piero Pinto, che stava fapendo il ristorante Toulà a Pechino e ci invitò a raggiungerlo. Era il novembre del 1987, di Shanghai ricordo ancora l’enorme quantità di ali di pollo e zampe di gallina buttate per le strade, come montagne gialle. Era appena uscito il film di Bernardo Bertolucci, L’ultimo Imperatore, conobbi il fratello dell’imperatore, faceva il calligrafo, era l’unico cinese che avesse dei gatti in casa».
La vede diversa oggi da allora?
«La Cina ha avuto un’enorme accelerazione, bisogna ammettere che hanno una notevole dose di ingegno. Sono diventati loro i nostri compratori, meno parvenu dei nuovi ricchi russi. Meno esibizionisti, ma molto più ricchi. Hanno questo proverbio: “Un ricco che mostra i suoi soldi è come il maiale che fa vedere il suo grasso”».
Anche con la Russia ha avuto un intenso rapporto, le sue modelle nel 1995 sfilarono sulla Piazza Rossa.
«Il mio fu uno dei primi negozi italiani. Mi ricordo i magazzini Gum a Mosca, con l’ambra finta e i visoncini. Niente a che vedere con il lusso di oggi».
Oggi dove vorrebbe andare, quali viaggi sogna?
«I miei viaggi oggi sono molto mentali. Andrei volentieri a Subiaco, a visitare monasteri. Non ho più voglia di partire per il grande mondo. Lavinia viaggia molto, è spesso a Dubai, ma per me è un parco divertimenti. Io ho bisogno di trovare l’antiquario, la libreria, la piccola pasticceria. (Apre un grande libro fotografico di Bob Krieger: una sua modella posa davanti alle due Torri gemelle). L’abito c’è ancora, è sotto, nel mio archivio, ma le Torri non ci sono più. E questo mi spaventa».
A Roma ha dedicato il suo celebre profumo. Come la vede oggi?
«Il grande altrove di Roma sono le sue chiese, gli angeli di marmo. Ha bellezze uniche, eppure mi sono trovata da poco un venerdì sera a visitare un’esposizione a Palazzo Altemps, mostra raffinata e bellissima, ma eravamo solo in sei».
È una città elegante?
«A volte, guardando certe signore romane, mi chiedo: chi glieli fa i vestiti? Ci deve essere un sottobosco di vecchie sarte che confezionano queste mise improbabili? Ma Roma si fonda sull’improbabilità, eterna e mutevole».
Da Uniqlo, il grande negozio giapponese di tendenza a prezzi contenuti, un maglione di cachemire costa circa 80 euro. Come si sente davanti alla moda low cost la Regina del cachemire?
«Non mi spaventa Uniqlo, anzi sono felice che il cachemire sia diventato un prodotto di largo consumo. Ma al mondo ci sono sempre almeno 500 donne che hanno bisogno dei miei cachemire. Sono impazzita tutta la vita per un taglio, per i tessuti, che avrei saputo scegliere anche da cieca. Oggi queste cose non interessano più. E poi io ho una maledizione».
Quale?
«Quella del vestito Duracell. I miei abiti durano anni e anni, incontro clienti che mi dicono: “Ce l’ho da 25 anni”. Lo si porta anche al cimitero. Eppure mi diverte che la moda possa avere una sua durata. Una storia da raccontare».
Che cosa sente di dover ancora fare?
«L’abito più bello. Sono sempre proiettata al futuro, avanti. La moda è una macchina infernale, che non si ferma mai».