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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Tutto su Gelli, dalla P2 alla spilla fascista nella bara

Il golpista sacro ai Servizi
Visto da vicino, nella sua villa Wanda, Licio Gelli ormai appariva un personaggetto da commedia all’italiana, mentre mostrava fiero le due foto appese sopra la sua scrivania: il Duce e Peron. A dispetto della sua storia, non sprigionava alcun carisma, non emanava alcuna aura luciferina. Così qualche commentatore ha avuto (e ha) buon gioco a ridurlo tutt’al più a un maneggione, a un affarista, oppure a un “passatempo di quelli saporiti, un gancio a cui appendere sempre nuove trame, nuovi sospetti, nuove anticamere della verità, che però non arrivava mai e non è mai arrivata”. Un grande burattinaio, insomma, per complottisti non pentiti. Invece Gelli, a dispetto della sua mancanza di fascino, è stato centrale nella storia italiana dal dopoguerra fino agli anni Ottanta. Non un burattinaio in proprio, ma un volonteroso funzionario della guerra segreta che è stata combattuta in Italia. Nemico dichiarato: il comunismo. Nemico combattuto: la democrazia, le regole, la legalità. Vita molto movimentata, fin dall’adolescenza. A 13 anni Licio, figlio di un mugnaio, nato a Pistoia nel 1919, è espulso da tutte le scuole del regno per aver preso a calci un professore antifascista. A 18 si arruola volontario per andare a combattere in Spagna a fianco dei franchisti. A 26 è arrestato per reati comuni (fra i quali furto e sequestro di persona) commessi con la camicia nera.
Fascista, è gran maestro del doppio gioco. Durante la guerra, i suoi amici sono i giovani fascisti repubblichini toscani, tra i quali il futuro senatore missino Giorgio Pisanò. È in stretto collegamento con il comando tedesco. Ma ha contatti, a partire dal 1942, con i servizi segreti inglesi e poi, dal 1944, con il Cic (Counter Intelligence Corps) della quinta armata americana. Ha perfino rapporti con alcuni esponenti locali della Resistenza.
Vincono loro. Così, quando nel settembre 1944 gli Alleati arrivano a Pistoia, è lui stesso a guidare la prima pattuglia che entra in città. Alcuni partigiani lo riconoscono: rischia la fucilazione, ma viene salvato dai dirigenti del locale Comitato di liberazione nazionale, che gli consegnano un attestato di partecipazione alla lotta partigiana.
Poi Licio emigra in Argentina, dove attiva nuovi rapporti. Tornato in patria, diventa via via rappresentante della Remington, libraio, segretario del deputato dc Romolo Diecidue. Poi dirigente della Permaflex, socio della Lebole. E massone.
Chiede l’iscrizione alla loggia Gian Domenico Romagnosi il 5 novembre 1963, visto di malocchio da alcuni autorevoli fratelli, appartenenti alla tradizione illuminista e antifascista della massoneria toscana. Il 28 novembre 1966 però la sua carriera muratoria ha un’improvvisa impennata: il Gran Maestro Giordano Gamberini lo chiama, ancora “apprendista”, al fianco dell’avvocato Roberto Ascarelli, che sta ricostruendo una loggia chiamata Propaganda 2. Gelli della P2 diventa in breve tempo Maestro Venerabile e le fa cambiare natura, affiliandovi centinaia di personaggi di rango e di potere.
Volonteroso funzionario del doppio Stato: questo è Licio Gelli, arruolato nel dopoguerra (come tanti altri fascisti e nazisti) nell’esercito invisibile che gli Alleati avevano approntato per combattere la nuova “guerra non ortodossa” contro il comunismo. Nella massoneria contribuisce a selezionare gli ufficiali anticomunisti dell’esercito disposti a mettere in conto anche un colpo di Stato. È la prima fase della P2, quella golpista. Dalle indagini del giudice Guido Salvini abbiamo saputo che Gelli ha un ruolo di rilievo nel tentato golpe Borghese: nella notte dell’8 dicembre 1970 è pronto a entrare con una squadra armata al Quirinale, per fare prigioniero il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il golpe viene sospeso all’ultimo momento dagli Usa: “È un vecchio vizio tutto americano”, spiegherà in un libro intervista del 2006. “Gli Usa tentano di imporre la democrazia ovunque, obbligando gli altri Paesi ad accettarla, ma il fine è conquistare sempre più spazio per loro”. Del resto, “dalla fine della guerra eravamo ormai una colonia degli Usa”. Gelli dunque è filoamericano in quanto anticomunista, ma, da fascista quale è restato, finisce sempre per mostrare il suo fastidio per la democrazia e perfino per gli Usa.
Dopo la stagione dei golpe avviene, scrive il giudice Salvini, “una sorta di potatura dei rami secchi, di ‘stabilizzazione controllata’ dei nuclei eversivi, consegnando alla magistratura le frange più radicali dei vari progetti golpisti, ma nello stesso tempo proteggendo alcuni settori il cui coinvolgimento non doveva assolutamente divenire pubblico (in particolare Licio Gelli e alcuni alti ufficiali anche legati al suo ambiente)”. Il nome del Venerabile sparisce: “La figura di Gelli è stata volutamente espunta dagli accertamenti e dal rapporto conclusivo del Sid”, scrive Salvini. “Del resto si trattava, secondo le parole del generale Maletti, di una ‘persona sacra per il Servizio’”.
Dopo il 1974, anno di svolta, la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambia: basta con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da un più flessibile programma di occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società e di tutti i centri di potere. Esercito, servizi, partiti, imprese, banche, giornali… La massoneria fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del doppio Stato. È l’apice della P2 circolo dell’oltranzismo atlantico in cui poi, all’italiana, pesano anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari. Negli anni, verranno per Gelli la scoperta degli elenchi della loggia, l’arresto, la fuga, i sospetti di aver riciclato i soldi di Cosa nostra, le condanne per la bancarotta dell’Ambrosiano e per il depistaggio della strage di Bologna. Fino ai giorni nostri, in cui sono ancora attivi alcuni iscritti alla loggia – da Silvio Berlusconi a Luigi Bisignani – e in cui, soprattutto, alcune parti del programma della P2 fase seconda, espresse nel “Piano di rinascita democratica”, si sono quasi realizzati.
Gianni Barbacetto
***
Quella mattina dell’81 terremotai il Corriere
Lavoravo al Corriere della Serae un giorno di maggio del 1981 (ho controllato era il 21 e ricordo una bella giornata di sole) fui protagonista involontario di un dramma che in poche ore portò alle dimissioni di Franco Di Bella dalla direzione del giornale. Di mattina presto fummo avvertiti che Palazzo Chigi avrebbe di lì a poco reso pubblici gli elenchi con gli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Un migliaio di nomi e cognomi che un paio di mesi prima (grazie all’indagine di Gherardo Colombo e Giuliano Turone) erano stati sequestrati nella villa di Castiglion Fibocchi e che, per le pressioni soprattutto del leader repubblicano Giovanni Spadolini, l’allora presidente del Consiglio, il dc Arnaldo Forlani, si era deciso a mollare per evitare la crisi di governo. Incaricato di mettere le mani sugli esplosivi libroni, portai a termine la missione e, verso mezzogiorno, mi presentai trafelato con il prezioso carico negli uffici romani del C o rri ere. Ma anche preoccupato perché mi era bastata una sbirciata alla lista per capire che nel giornale che mi pagava lo stipendio le cose stavano per mettersi male assai. Cascai nel mezzo della riunione che ogni giorno si svolgeva alle 12, in collegamento interfono con Milano. Attimi, naturalmente, difficili da dimenticare. Il mio ingresso nella stanza, piena come un uovo di colleghi che più di qualcosa avevano captato.
Lavoravo al Corriere della Sera e un giorno di maggio del 1981 (ho controllato era il 21 e ricordo una bella giornata di sole) fui protagonista involontario di un dramma che in poche ore portò alle dimissioni di Franco Di Bella dalla direzione del giornale. Di mattina presto fummo avvertiti che Palazzo Chigi avrebbe di lì a poco reso pubblici gli elenchi con gli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Un migliaio di nomi e cognomi che un paio di mesi prima (grazie all’indagine di Gherardo Colombo e Giuliano Turone) erano stati sequestrati nella villa di Castiglion Fibocchi e che, per le pressioni soprattutto del leader repubblicano Giovanni Spadolini, l’allora presidente del Consiglio, il dc Arnaldo Forlani, si era deciso a mollare per evitare la crisi di governo. Incaricato di mettere le mani sugli esplosivi libroni, portai a termine la missione e, verso mezzogiorno, mi presentai trafelato con il prezioso carico negli uffici romani del Corriere. Ma anche preoccupato perché mi era bastata una sbirciata alla lista per capire che nel giornale che mi pagava lo stipendio le cose stavano per mettersi male assai. Cascai nel mezzo della riunione che ogni giorno si svolgeva alle 12, in collegamento interfono con Milano. Attimi, naturalmente, difficili da dimenticare. Il mio ingresso nella stanza, piena come un uovo di colleghi che più di qualcosa avevano captato.
E con il caporedattore Roberto Martinelli che annuncia al microfono: “Franco, è arrivato adesso Padellaro con gli elenchi”. Di Bella: “Dicci Antonio, di che nomi si tratta?”. Non avevo scelta: se avessi risposto non li ho ancora letti avrei fatto una storica figura di merda perché nessuno ci avrebbe creduto. Parlai tutto d’un fiato: “Veramente direttore ci sei anche tu”.
Dopo tanti anni rammento nel silenzio interminabile il ronzio di un ventilatore. Poi, da milioni di chilometri una voce e tre sole parole: “Bene, scrivete tutto”. Nel pomeriggio, Di Bella lasciò per sempre via Solferino.
Non ho mai conosciuto Licio Gelli, anche perché ai tempi del Corriere noi umili redattori nulla sapevamo dei sabba del Venerabile con il banchiere dell’Ambrosiano Roberto Calvi e il sovrintendente alla Loggia editoriale, Bruno Tassan Din. Avevamo sentore dei problemi finanziari dei Rizzoli e, malgrado Di Bella cercasse di tranquillizzarci, un certo odore di zolfo arrivava lo stesso nelle cantine del giornale. Non ho tuttavia di quegli anni un ricordo esclusivamente sgradevole. Il più grande quotidiano italiano costretto a tenere bordone ai golpisti assassini argentini Videla, Massera &C., e a veicolare progetti cripto fascisti di rinascita nazionale, ma pur sempre il Corriere, necessitava come l’aria di un’omertà diffusa e condivisa. Da qui gli omaggi del vizio (piduista) alla virtù (corrierista) che si sostanziavano in promozioni e gratifiche, generosamente distribuite dalla angustiata direzione a ogni più lieve tramestio redazionale. Così, quando il complotto massonico fu finalmente smascherato, e il Corriere piombò nell’inverno della quaresima e della giusta espiazione, di tanto in tanto tra i giornalisti riemergeva, nella chiacchiera davanti alla macchinetta del caffè, una velata nostalgia per la stagione del traviamento. Del resto, l’interessata omertà che aveva consentito la pubblicazione sul Corriere della famosa intervistona di Maurizio Costanzo a Licio “Il burattinaio”, senza che volasse mosca, fu lo stesso morbo che contagiò e corruppe vasti settori del sistema di potere nazionale: dagli alti vertici militari ai servizi di sicurezza in blocco, da legioni di parlamentari a pezzi decisivi dell’alta burocrazia e dell’informazione. Gelli divenne un appestato dopo l’incursione della Guardia di Finanza a villa Wanda. Prima, come sappiamo, plotoni di potenti (e aspiranti potenti) facevano anticamera al Grand Hotel bramando una sua benedizione.
Dopo la prima rottura con Berlusconi del ’94, fu Umberto Bossi (che intervistai per l’Espresso) a spiegarmi perché Gelli aveva fatto e continuava a fare comodo a tanti: “Grazie al Cavaliere, il piduismo ha ritrovato una sua forte attualità. La P2 nasce alla fine degli anni 70, sostanzialmente come risposta al consociativismo Dc-Pci. Gelli propose di sostituire il consociativismo con un ammortizzatore molto particolare, il controllo dell’opinione pubblica attraverso i giornali e le tv. Una soluzione di stampo peronista”, concluse il Senatùr, “che Berlusconi, piduista della prima ora, interpreta perfettamente”.
Ora che il Venerabile ci ha lasciato, sappiamo che nel trascorrere delle repubbliche altri burattinai si sono avvicendati ai vari piani del potere, pur senza raggiungere la mefistofelica grandezza del prototipo. Ma oggi, visto che il piano di rinascita nazionale è stato realizzato in molti suoi aspetti, un Gelli occorre ancora?
Antonio Padellaro

***Frammenti di una storia nera
Nel 2003 ebbi l’opportunità di conoscere Licio Gelli a Villa Wanda, la sua residenza di Arezzo. Avevo un pallino, fare un film che si ispirasse alle sue traversie. Non gli ci volle molto, e questo era senz’altro uno dei talenti di Licio Gelli, creare un’atmosfera di simpatia, anche se la famiglia Gelli – mi dirà in seguito la segretaria – rimase un po’ colpita dal mio abbigliamento informale, dato che avevo scordato di mettermi la cravatta. I primi incontri duravano circa mezz’ora, poi Gelli mi diede il suo assenso all’ipotesi del film.
Apprezzava la mia compagnia, tanto che, quando gli chiesi di poter accedere ai suoi segreti, dopo aver tentennato mi disse di sì, a un patto: “Lei decifri il mio codice e io non avrò segreti per lei”. Vinsi la scommessa. Gelli mi raccontò della sua spontanea adesione, a 18 anni, col soprannome Licio di Gommina, alla guerra civile di Spagna. Aderì al sostegno di Francisco Franco. Sotto i suoi occhi morì il fratello. Al ritorno in Italia fu ricevuto da Mussolini che gli chiese cosa potesse fare lo Stato italiano per una famiglia che aveva dato molto alla nazione. Rispose senza esitare: “Vorrei diventare un agente dei Servizi segreti. Mussolini fu d’accordo e da allora fui destinato all’Ufficio Cifra della Farnesina. Da allora non ho smesso di servire fedelmente lo Stato”.
Mi parlò del suo passato nell’intelligence fascista e del periodo a Zara, in Dalmazia. “Nel pieno della guerra mi confrontavo col mio omologo tedesco Kurt Waldheim, che diventerà segretario delle Nazioni Unite. Io e i miei uomini mettemmo le mani sul tesoro del re di Jugoslavia. Riuscimmo a beffare il suo controllo: caricammo i lingotti d’oro su un treno che andava a Trieste. Nascosi l’oro con della paglia, su cui feci stendere soldati italiani coperti di piaghe e sangue fasulli. I tedeschi, schifati, fecero passare il treno che arrivò a Trieste, i lingotti vennero affidati alla Banca d’Italia”. “Dopo l’8 settembre – continuò a raccontare – ho aderito più che alla Repubblica sociale italiana a un Servizio che faceva parte delle Ss tedesche, Sezione Sd, che fungeva da fonte d’informazione per Karl Wolff, capo delle SS in Italia. Mi incontravo regolarmente in una vecchia osteria di Lucca, il Portone rosso, con questo graduato che si chiamava Johann Thaler. Continuai fino all’ultimo, anche con un’operazione di infiltrazione dei partigiani in Toscana”.
Venendo a tempi più recenti, quando gli confidai di aver cambiato indirizzo e di essermi trasferito, a Roma, vicino a via del Governo Vecchio, non esitò a raccontarmi davanti a un testimone un aneddoto sorprendente: “Lei abita accanto al garage che si trova all’angolo con via del Corallo, dove abbiamo messo Moro la notte prima di farlo trovare ucciso in via Caetani”.
Non fu l’unica rivelazione. Un’altra volta mi disse: “La nostra organizzazione era piramidale, sopra ci stavo io, sotto Andreotti e Cossiga. Io avevo la mia P2 ma Andreotti e Cossiga non erano da meno. Cossiga aveva ‘Gladio’ e Andreotti il meno conosciuto ma non meno efficace sistema ‘Anello’. Le schermaglie, che a certo punto son diventate di dominio pubblico, quando Cossiga era diventato presidente della Repubblica e Andreotti voleva scalzarlo, i famosi ‘sassolini nelle scarpe’, potevano anche riguardare il destino di ingenti somme di denaro, tangenti decennali che ho sempre avuto l’impressione che fossero finite al tempo in alcuni paesi dell’Est, ora ex comunisti”.
Negli ultimi tempi è stato più difficile poterlo vedere a causa delle sue sempre più precarie condizioni di salute. Proprio in questo periodo stavamo arrivando alla sintesi per la sceneggiatura che interessa più a produttori nordamericani e svizzeri, che italiani.
L’ultima volta che ci siamo incontrati, mi ha detto, sulla porta: “Caro dottore, la vedo sempre volentieri ma, così vestito, non la potrò più ricevere. Sarei costretto a farlo in pantofole, vestaglia e pigiama”.
Marco Dolcetta

***
Le fioriere dove vennero trovati lingotti d’oro per un valore di oltre 2 milioni di dollari, sono ancora lì. Sullo scivolo che accoglie chi oltrepassa il cancello di Villa Wanda, appollaiata su una collinetta alle porte di Arezzo. Sono curatissime. Era il modo con cui scacciava il dolore per quei due figli, Raffaello e Maurizio, che l’hanno quasi rinnegato trasferendosi uno in Paraguay l’altro chissà dove: curare la sua storica residenza, divenuta simbolo indiscusso dei segreti più cupi dell’intera storia della Repubblica, ancora più del suo Venerabile inquilino.
All’una di ieri mattina, poche ore dopo la scomparsa, ad accudire Licio Gelli nella sua abitazione c’è uno dei nipoti, Alessandro Marsili. In casa solo la seconda moglie, Gabriella Vasile. Alessandro nel cortile interno saluta chi esce e accoglie chi arriva. E non c’è alcuna processione. Anzi. Una macchina esce e una entra. E la accoglie anche se è di giornalisti. Si mostra cordiale. Appare sereno. Sapeva che sarebbe accaduto.
Pochi mesi fa il nonno era stato ricoverato ad Arezzo e rimandato a casa perché la medicina nulla poteva contro l’età. Già nel febbraio 2015 Gelli era stato costretto a letto, incastrato tra marchingegni infernali da attivare per sostituire le funzioni vitali, quando necessario. Martedì notte non sono bastati. Alle due del mattino arriva una volante della Polizia e una pattuglia dei Carabinieri. Forse anche loro si aspettavano di trovare una folla. Raggiungere la villa non è semplice. È decisamente nascosta, coperta da un’altra residenza e solo un piccolo cartello indica la stradina su cui a malapena passa un’auto.
“Allestiremo la camera ardente nella basilica qui sotto, in Santa Maria delle Grazie”, dice Alessandro. E agli uomini delle forze dell’ordine che gli chiedono se ritiene necessario la loro presenza fuori dai cancelli, il nipote del padre della P2 risponde con un gentile quanto imbarazzato diniego, quasi stupito della domanda. Prima di spegnersi fisicamente, Gelli era già morto nella memoria di molti.
Ieri mattina il feretro ha vagato per la città. Nella chiesa di Santa Maria non poteva essere ospitato perché la sala solitamente adibita a camera ardente è occupata dal presepe, così è stato portato in una piccola e anonima stanza della misericordia in piazza del Popolo. Una stanzetta con lo spazio per appena otto sedie. Al centro lui, il gigante dei segreti d’Italia, consumato dalla malattia più che dai 96 anni d’età.
Infilato in un abito largo, con i suoi immancabili occhiali infilati nel taschino e una spilla con effigie fascista. Un rosario appoggiato sulle mani e un anello d’oro con stemma nobiliare infilato nell’anulare destro ma diventato troppo grande rispetto al dito. Come grande appare la stanza. Per quanto piccola, sono pochissime le persone che nella giornata vengono a salutare il loro cittadino più noto. Anche i curiosi sono pochi. Si fermano all’esterno, lungo la strada trafficata, a leggere l’annuncio funebre: “Ieri sera si è spento, nella pace del Signore, all’età di 96 anni N.H Conte Licio Gelli”. Con la seconda moglie del Venerabile, i due nipoti, sfilano pochi amici e Gianfranco Ricci Albergotti, l’avvocato storico nelle infinite battaglie legali. Saluta la vedova. “Ci avevo parlato pochi giorni fa, sembrava stesse bene come sempre”. Annuisce lei: “Non ha sofferto, se ne è andato senza dolore”. Uscendo Ricci si concede ai giornalisti. “Il suo grande cruccio era non poter avere i figli vicini in quest’ultimo periodo di tempo. Era tranquillo, tutto sommato erano pensieri non di guerra ma di pace, sostanzialmente.”
Ad altri aggiunge: “Era sereno, mi parlava dei restauri che stava facendo a Villa Wanda. A tutto pensava meno che alla morte”. Poi riesce a sfuggire, braccato: unico volto riconoscibile venuto a salutare il Venerabile. I funerali si celebrano oggi a Pistoia alle 15. Accusato di aver trascorso la vita a distribuire potere e diffondere il terrore in un intero Paese, Gelli l’ultimo viaggio sembra destinato a farlo da solo.
Davide Vecchi