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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Conseguenze della lista P2: decapitati in un sol colpo i vertici di polizia, servizi segreti, difesa. E Repubblica sorpassò il Corriere

Il Grande Materassaio, nonché Grande Maestro massonico, Licio Gelli è morto la notte scorsa nel suo letto, nella villa di Castiglion Fibocchi, alla rispettabile età di 96 anni dopo una vecchiaia serena benché avesse scontato in vita sua parecchi anni di galera e vissuto come latitante. Parlai con lui un paio di volte al telefono per intervistarlo e rispondeva senza filtri, con voce modesta e accento aretino. Fu tante cose: repubblichino, doppiogiochista e poi partigiano, forse agente americano, forse agente inglese, secondo molti un agente doppio legato all’Unione Sovietica, ma fu prima di tutto un bravissimo mercante e trafficante di uomini e di informazioni.
Il suo capolavoro fu quello di decapitare in un colpo solo tutti i vertici della polizia, dei servizi segreti e delle Forze armate, semplicemente lasciando in bella vista nel suo giardino gli elenchi degli iscritti alla sua loggia, ormai nel mirino della magistratura. Sono passati 34 anni da allora: era il 17 marzo del 1981 quando i giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinarono alla polizia di entrare a Villa Wanda e nella sua fabbrica a Le Gioie, dove si trovarono gli elenchi belli e pronti per essere sequestrati, con tutte le spiegazioni e gli allegati. Un tempismo che avrebbe dovuto insospettire i responsabili della sicurezza, ma anche quei responsabili erano negli elenchi. Dunque si assistette a un massacro mediatico privo di qualsiasi lettura critica. Gli elenchi furono subito dati in pasto all’opinione pubblica (noi giornalisti fummo convocati alla Camera dove era stata allestita una stanza con tutti i dossier fotocopiati e numerati) e tutte le figure di rilievo pubblico furono costrette alle dimissioni. «L’Italia mi disse il generale Gian Adelio Maletti, capo del servizio segreto interno, iscritto alla loggia con i suoi ufficiali subordinati fu decapitata. E fu decapitato il più importante giornale italiano, il Corriere della Sera, i cui vertici furono coinvolti, dal direttore Di Bella all’amministratore Tassan Din. Il giornale di via Solferino entrò così in una profonda crisi interna e di immagine che permise alla Repubblica di Eugenio Scalfari di fare il sorpasso. Fra i nomi esposti alla gogna c’erano quelli di Maurizio Costanzo («ho fatto una gran cazzata», mi disse pochi giorni prima), dell’imitatore Alighiero Noschese, dell’imprenditore Silvio Berlusconi, del socialista Fabrizio Cicchitto e anche quello del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il vincitore delle Brigate rosse poi ucciso a Palermo con sua moglie Emanuela Setti Carraro, il quale spiegò di essersi iscritto per poter controllare gli iscritti.
Il danno per la nostra sicurezza fu incalcolabile. I nostri alleati ci guardavano come un Paese colabrodo che non avrebbe saputo resistere a un attacco di vigili urbani ciclisti. Si fece pian piano strada l’opinione secondo cui Gelli, grazie ai suoi eccellenti rapporti commerciali con la Romania dove aveva un grande deposito di materassi Permaflex, lavorasse per il patto di Varsavia. Gli strateghi dell’Est erano in quegli anni scatenati in piani offensivi sul teatro europeo, a causa delle attività del sindacato Solidarnosc, guidato dal super cattolico Lech Walesa in Polonia. Solidarnosc era espressione diretta del Papa Karol Jozef Wojtyla che subì un attentato il 13 maggio del 1981, appena due mesi dopo la decapitazione del sistema di sicurezza italiano a causa delle liste fatte trovare da Licio Gelli. Secondo l’inchiesta che fece la Commissione parlamentare da me presieduta, l’eliminazione del Papa polacco era la condizione necessaria per recuperare il controllo territoriale della Polonia. Il sistema di sicurezza italiano era in quel momento completamente disossato.
L’arte di Gelli era stata quella di creare sotto l’etichetta della loggia massonica Propaganda Due (P2) un contenitore molto attraente in cui chi conta, o chi aspirava a contare, si illudeva di poter consolidare il suo potere. Alla fine, la loggia funzionò come una trappola per aragoste: quando fu piena, la cesta fu scaricata direttamente nell’acqua bollente della cucina politica. Fu una strage di politici, generali, giornalisti, economisti, imprenditori. Qualcuno disse che Gelli era soltanto un inguaribile pasticcione, ma tutti lo descrivevano come un uomo ordinatissimo che aveva fatto carriera già sotto il fascismo schedando, per hobby, tutte le persone che conosceva, compresa la loro marca favorita di sigarette. Ebbe subito incarichi riservati, fra cui quello di trasferire in Italia il tesoro della Corona macedone, da cui fece sparire 92 lingotti ritrovati poi in Argentina.
A Gelli fu attribuito il copyright di un piano politico banalissimo considerato all’epoca eversivo e golpista: quello di una Repubblica presidenziale con profonde riforme costituzionali. Nella sua ultima intervista disse: «Dovrebbero pagarmi i diritti d’autore».