17 dicembre 2015
Tags : Guerre stellari
Quindi com’è questo Guerre Stellari? Recensioni
Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Sono passati trentotto anni da Guerre stellari (ora rititolato in omaggio alla globalizzazione del marketing Star Wars – Una nuova speranza) ma i personaggi e soprattutto le avventure – e l’idea di cinema – creati da George Lucas continuano ad avere la forza per conquistare lo spettatore.
Lo dimostra questo Star Wars – Il risveglio della forza, attesissimo settimo episodio della saga affidato alla regia di J.J. Abrams che si è fatto carico di scriverne la sceneggiatura con Lawrence Kasdan e Michael Arndt ma che soprattutto ha saputo recuperare lo spirito originale proprio mentre apriva la storia verso nuovi sviluppi. Un remake che è anche un reboot (e naturalmente un sequel), come al regista era già riuscito con lo Star Trek del 2009 e un po’ come ha fatto Mendes con lo 007 affidato a Daniel Craig.
È la strada maestra della nuova Hollywood del Duemila, quella di recuperare l’«usato sicuro» e aggiornarlo alle evoluzioni dei media senza però cedere all’infantilizzazione forzata di cui sono campioni i supereroi nati sui fumetti: «vecchi» problemi (lo scontro tra Bene e Male ma anche quello tra Padri e Figli) e nuove ambientazioni. E naturalmente una regia capace di non rallentare mai il ritmo per tutti i 135 minuti di durata.
Il film di Abrams ricalca (o cita: scegliete voi) quello fondativo di Lucas. Anche qui viene affidato a un droide – il simil Papalla BB 8 – un messaggio fondamentale per il futuro della Repubblica e della coalizione Ribelle: è la mappa stellare che permette di ritrovare l’eremo dove si è rifugiato Luke Skywalker, l’unico che come spiega Lor San Tekka (Max von Sydow) al pilota ribelle Poe (Oscar Isaac) potrebbe istruire nuovi jedi e così contrastare il potere totalitario del Primo Ordine e del suo leader Snoke (un irriconoscibile Andy Serkis). Anche se le truppe del Primo Ordine guidate da Kylo Ren (Adam Driver) sono decise a impadronirsi di quella mappa ad ogni costo.
San Tekka viene ucciso, Poe viene catturato ma riuscirà a liberarsi grazie al soldato con scrupoli morali FN 2187 (John Boyega) che d’ora in avanti sarà ribattezzato Finn mentre il droide finisce nelle mani della giovane «cacciatrice di rottami» Rey (Daisy Ridley), proprio come C-3BO veniva trovato con il suo messaggio da Luke nel lontano 1977.
La fuga dalle mani di Kylo Ren divide Finn da Poe: mentre il secondo tornerà in scena solo verso la fine del film, per compiere però una missione decisiva per la sopravvivenza dell’alleanza Ribelle, Poe incrocia la sua strada con quella di Rey e insieme cercheranno di mettere in salvo BB 8.
Come? Fuggendo a bordo di una «vecchia ferraglia» che altro non è che il Millennium Falcon, permettendo così, dopo un altro colpo di scena, a Han Solo e Chewbacca di tornare in scena. Anzi «a casa» come dice una battuta che ha fatto il giro del mondo nei trailer.
A questo punto è meglio fermarsi e lasciare agli spettatori il piacere dei tanti colpi di scena che Abrams & C. hanno disseminato nel film, a cominciare dall’identità di Kylo Ren, il personaggio che ha scelto «il lato oscuro della forza» e che giura sul cranio mezzo sdentato di Darth Vader di portare a termine la missione che aveva cominciato.
Aggiungiamo solo che rientrerà in scena anche una segnata Carrie Fisher nei panni di Leia Organa, la principessa del 1977, che come tutti i vecchi protagonisti ritrova il nome originale anche nell’edizione italiana (allora era stato tradotta Leila, così Jan Solo ritorna Han Solo e Dart Fener Darth Vader). E che nell’ultimissima scena, appena prima dei titoli di coda,…
Tante facce conosciute tornano, dunque, ma in nuove situazioni offrendo allo spettatore il piacere di un re-incontro senza la delusione del già visto. J.J. Abrams gioca proprio con questa sensazione, che poi era il segreto del cinema di genere messo a punto dalla Hollywood classica: offrire a chi guarda il piacere di trovare situazioni nuove dentro personaggi e temi ricorrenti.
Ci si muove dentro territori conosciuti senza sentire il peso del ricalco o della copia (e neanche tanto quella della citazione, se non per la scena del bar stellare con la sua variopinta fauna di avventori e spie varie). E se ci si dimentica per un momento della campagna di marketing e merchandising che ha invaso occhi e menti e si ritrova il piacere (infantile) delle favole, il divertimento è assicurato.
Gabriele Romagnoli per la Repubblica
«Era tutto vero». È questa la frase chiave del nuovo episodio della saga di Guerre stellari. La dice Han Solo, rientrato a bordo della sua vecchia astronave, guardando negli occhi quelli che saranno i suoi successori, ma anche noi che c’eravamo quando tutto cominciò e le nuove generazioni, che avevano ascoltato leggende e promesse, fin qui annegate nella noia dei prequel. «Era tutto vero»: il mito, la forza, la resistenza. Erano veri i personaggi, era vero il messaggio. Per un attimo ti viene da credere ti stia dicendo che esistono davvero dio, i profeti, la lotta del bene contro il male e il destino che assegna al primo la prevalenza. Poi ti scuoti: è soltanto un film. Dopo un’infinita attesa, scandita da ricostruzioni teosofiche e derive pubblicitarie in cui una creazione pop veniva spiegata come la religione che non è o declinata per vendere prodotti che non la rappresentano, finalmente buio in sala e, per una volta, evviva il lato oscuro. J.J. Abrams, il regista del
Risveglio della forza, e i suoi sceneggiatori avevano un problema: come riprendere una narrazione interrottasi 32 anni fa con Il ritorno dello Jedi? Missione quasi impossibile. Compiuta affidando ai vecchi miti il compito di garanti, benedicenti apparizioni che ci confortano e ci fanno sentire a casa. L’unico ad avere un vero peso nella storia è Solo, che entra in scena dopo la prima mezzora e, finché la calca, la ruba a tutti. Gli altri, da C1P8 all’ex principessa, ora generale, Leila hanno poche battute, uno sguardo appena. Ma quello di Luke Skywalker, l’ultimo Jedi, è molto di più, è un gancio, un traino, un’investitura conferita con il peso della consapevolezza: non ci sarà dovere che non comporti pena, né libertà senza conflitto.
A casa, dunque, con le vecchie pareti e i nuovi inquilini. C’è un senso di rassicurante déjà-vu quando compaiono. Alcuni assomigliano al passato, come il robottino sferico, altri fanno entrare nella saga gli elementi di maggior successo nel presente del fantasy: Rey, la ragazza neo-protagonista (professione: rottamatrice) ricorda la spavalda arciere di Hunger Games. Ci sono atmosfere collaudate (il bar che è anche un freak show) e altre importate (il pianeta-arma da Matrix, gli scenari naturali dal Signore degli anelli), ma tutto si tiene. Nella storia non si entra, ci si precipita. È subito battaglia, necessità di schierarsi, richiamo all’azione come purezza: purific-azione. Ogni scena s’infila nell’altra senza dare tempo, semmai ritmo. Gli inciampi sono piuttosto nelle parole, in un paio di battute da cartellino rosso per invocare l’autoespulsione dal cinema: il cattivo che al riparo della maschera riesce a dire seriamente «Sono dilaniato» e l’anziana condottiera che abbraccia Harrison Ford dicendogli, a nome delle residenti nella clinica Tramonti Gioiosi: «Mi fai sempre impazzire».
Slalomati questi paletti, si va. È tutta discesa. Che cosa si vede? Un accordo capestro della Disney con gli ammessi all’anteprima impedisce di rivelare qualsiasi cosa. E allora diciamo che cosa si intravede. Il settimo episodio (ma quarto in progressione) cucina la stessa ricetta con ingredienti apparentemente diversi. È un’illusione dei sensi, come quando mangi seitan a occhi chiusi e pensi sia un tipo di carne. Non sono i personaggi la cosa principale nella ricetta di Guerre stellari, ma il contesto, la forma, i valori. Quelli restano immutati e proprio per questo glorificati nell’osanna della ripe- tizione. È una galassia lontana eppur dietro l’angolo in cui, come in ogni altrove, il male si riorganizza in sempre nuove forme, un blob che si ricompatta e poco conta sotto le insegne dell’Impero o del Primo Ordine, mentre il bene resta fedele a se stesso, alla semplicità e grandezza di esistere in un solo possibile modo.
Chi pensa a Guerre stellari come a una narrazione rassicurante commette un grave errore, poiché il presupposto della saga è l’anti-manicheismo, con abbondanti concessioni al relativismo: dentro ogni eroe c’è il seme schiacciato del cattivo, ma non è detto non possa risorgere. Ogni tradimento è una rinascita, ma è vero anche il contrario. È, questo sì, il messaggio biblico, lo stesso che il servitore orientale decifra per il padrone alla fine della Valle dell’Eden di Steinbeck: «Tu potrai avere signoria sul peccato». Non «tu avrai» come in errate traduzioni. È tua facoltà, è libero arbitrio, è quel che sceglierai di fare delle due possibilità che ti sono date: pillola rossa/pillola blu, amare/odiare, resistere/sottomettersi.
Tutto Guerre stellari, anche questo settimo episodio, è la storia di una scelta, di una catena di scelte: quella del ragazzo che abbandona il Primo Ordine dopo essersi macchiato di sangue, quella della ragazza che lascia la speranza e prende la spada, quella di Han Solo che va incontro al suo destino sul ponte sospeso.
Disarmato? All’apparenza. In realtà armato dei valori in cui si riconosce non per dna, ma per vocazione estrema: lealtà, sacrificio, coraggio. In quest’epoca in cui tanto, troppo si concede alla paura, siamo tutti con lui su quel ponte. Quel che ha dentro può non bastare, ma è solo così che si va avanti.
Fabio Ferzetti per Il Messaggero
E così rieccoci qua. Sono passati 38 anni da quando uscimmo stupefatti da quello che allora si chiamava Guerre stellari e che nessuno immaginava avrebbe originato una lunghissima serie. Il cinema che lo proiettava non esiste più da tempo, ma cercheremo di non essere sentimentali. Mentre gli effetti speciali che allora ci lasciarono a bocca aperta sono diventati l’inflazionata pietra angolare dell’immaginario contemporaneo, guadagnando in perfezione ciò che hanno inesorabilmente perso in meraviglia.
Nel frattempo George Lucas ha venduto il suo impero alla Disney, poi è stato gentilmente fatto fuori e il timone è passato al re Mida J.J. Abrams, grande rianimatore di serie in affanno (Star Trek, Mission Impossible...), abbastanza spiritoso da costruire questo settimo episodio su uno scontro padre/figlio, guardacaso (vietato aggiungere altro, diciamo solo che è uno dei lati meno convincenti del film). Ma anche attento gestore di un universo traboccante di inventiva che doveva tradire e rispettare insieme. Conquistando i giovani di oggi senza deludere gli ingrigiti fans della primora.
Missione compiuta? In buona parte sì, anche se qua e là si sente il lieve impaccio, l’inconfessata riverenza di chi va a abitare dentro un monumento e non può ridipingere e ristrutturare tutto come vorrebbe. E non sa, forse non può ritrovare il grande respiro epico della prima serie, anche perché in questi quasi 40 anni le saghe si sono moltiplicate senza ritegno. Ma soprattutto vuole seppellire le farraginosità degli ultimi episodi firmati Lucas per resuscitare il miracoloso equilibrio iniziale tra azione e pathos, Campbell e Flash Gordon, Tolkien e Kurosawa, inventiva sfrenata e “lato oscuro” della Forza...
Dunque ecco due eroi nuovi di zecca, non imprevedibilmente una ragazza e un giovane afro chiamati Rey e Finn (indovinatissimi gli interpreti, gli inglesi Daisy Ridley e John Boyega), catapultati al centro dell’azione in un’apertura spettacolare quanto sorprendente. Anche perché in tutto quel bianco dei droidi all’attacco appare fugacemente ma forse per la prima volta nella serie un elemento destinato a cambiare tutto: il sangue.
Ma è solo l’inizio. Presto questi giovani ignari ma coraggiosi saliranno sul Millennium Falcon, non diremo come, con le vecchie glorie della saga, l’inossidabile Han Solo (difficile invecchiare con maggior leggerezza di Harrison Ford) e il sempre più espressivo Chewbecca, per lottare uniti contro il regime totalitario di Ordine Primo, che spadroneggia nella galassia e soprattutto va in cerca del disperso Luke Skywalker proprio come i valorosi combattenti della Resistenza, anche se per opposte ragioni.
A proposito di Chewbecca, qui i miracoli del digitale, che Abrams usa con saggia moderazione nelle scene più fragorose, sono davvero sbalorditivi: vedere per credere le scene in cui questo scimmione privo di parola esprime sentimenti complessi con grande naturalezza. Anche se a restare nel cuore degli spettatori sarà il robottino BB-8, “reboot” del caro vecchio R2-D2, arenato in qualche remoto angolo della galassia. Una specie di coloratissima palla da bowling con testa a cupola che J.J. Abrams avrebbe disegnato di persona ed è protagonista di molti dei momenti migliori del Risveglio della forza (esilarante l’imbarazzo in cui sprofonda quando si trova senza volere a condividere notizie pericolose, e in 3 secondi deve decidere se fidarsi o meno di un umano...).
Le molte altre sorprese vanno scoperte al cinema, tenendo presente ciò che mormora stupito Han Solo in una specie di invito cifrato allo spettatore: «La cosa assurda è che è tutto vero, la Forza, gli Jedi... tutto vero!». Magari per essere ancora più convincente Abrams avrebbe dovuto osare di più, e non solo rifare i momenti classici dell’originale (sì, c’è anche il saloon). Il “suo” Star Trek, diciamolo, era decisamente più nuovo e inventivo. Ma queste, oggi che il cinema sembra condannato alle saghe, forse sono solo le basi di un nuovo inizio.