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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

La Fed alza i tassi d’interesse dello 0,25%. Conseguenze

Il dado è tratto: la Federal Reserve ha fatto scattare ieri pomeriggio, al termine di due giorni di riunione al vertice, il primo rialzo dei tassi di interesse americani in quasi dieci anni. Una stretta d’un quarto di punto – allo 0,25%-0,50% – decisa all’unanimità e che vale la fine di un’era, perché ha schiodato il costo del denaro da minimi vicini a zero dove la Fed l’aveva portato nel dicembre 2008 in risposta alla grande crisi finanziaria ed economica. Nel corso dell’anno prossimo la Banca centrale ha fatto sapere di avere in programma, in un percorso senza scosse, altre quattro mini-strette. A ruota è arrivata la decisione di Jp Morgan e Wells Fargo di portare il prime rate dal 3,25 al 3,50 per cento.
La Fed ha notato «considerevoli miglioramenti quest’anno nelle condizioni del mercato del lavoro e ha ragionevole fiducia che l’inflazione aumenti, nel medio termine, verso l’obiettivo del 2%». I rischi «tenendo conto degli sviluppi interni e internazionali appaiono equilibrati sia per l’outlook dell’attività economica che per il mercato del lavoro». E si aspetta che «le condizioni evolvano in modo da garantire solo graduali incrementi dei tassi», i quali dovrebbero comunque rimanere «per un certo tempo sotto i livelli prevalenti nel lungo periodo». La previsione media dei 17 esponenti Fed, invariata da settembre, è di quattro rialzi di un quarto di punto nel 2016 che portino i tassi all’1,375 per cento.
«L’economia sta andando bene e ha soddisfatto i criteri per un rialzo dei tassi», ha detto il presidente Janet Yellen durante la successiva conferenza stampa, aggiungendo di non temere l’avvento di nuovi rischi di recessione. La «modesta» stretta rappresenta piuttosto «la conclusione di un’epoca eccezionale e riflette la convinzione che l’economia continuerà a rafforzarsi». Yellen ha anche ricordato che «la politica monetaria resterà accomodante» e che la Fed monitorerà attentamente i dati, la debole inflazione, attribuita anzitutto al temporaneo calo dell’energia, come anche le rimanenti fragilità nel mercato del lavoro.
Ma se il cammino della Fed verso la prima stretta, oggetto di ripetuti rinvii, non è stato facile, la strada di una continua normalizzazione di politica monetaria non appare meno irta di incognite. La Borsa ha reagito nell’immediato con sollievo ad una scelta largamente anticipata, con gli indici che hanno svettato dell’1,5 per cento. «Cosa farà però davvero la Fed del 2016? E sta commettendo un errore? Sono questi gli interrogativi da porsi» dice John Bellows, gestore di Western Asset di Legg Mason. L’iniziale rialzo tiene a battesimo questo nuovo dibattito nonostante le indicazioni offerte da Yellen. «Prevedo almeno un’ulteriore stretta a marzo, ma in seguito la Fed potrebbe dover riesaminare strategia e outlook», continua Bellows. «Ha lavorato troppo al varo del ciclo di strette per invertire la rotta con leggerezza» spiega. E i rischi di errori restrittivi gli sembrano scarsi: modesti rialzi «non minacciano effetti sproporzionati sull’economia», la posizione accomodante della Fed può contare anche su 4.500 miliardi di dollari in titoli che manterrà in bilancio e il deleveraging avvenuto in molti settori attutirà eventuali stress. Il gestore vede tuttavia l’economia ancora afflitta in prospettiva da eccessiva debolezza, tanto da mettere alla prova la flessibilità di politica monetaria.
Joseph LaVorgna di Deutsche Bank teme all’orizzonte pericolose incomprensioni tra la Fed e Wall Street. «La distanza tra le aspettative dei mercati e dei banchieri centrali rimane ampia. I primi finora hanno scommesso su due strette l’anno prossimo, i secondi su quattro. E la composizione del vertice della Banca centrale sarà semmai meno accomodante nel 2016». Michael Lake di Schroders ipotizza a sua volta lo spettro di tensioni: «La strada verso una vera normalizzazione dei tassi potrebbe presentare più volatilità di quella al momento immaginata sia dalla Fed che dagli investitori». Che potrebbero cadere vittima di una sottovalutazione di un nuovo rischio-tassi.

Marco Valsania

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La svolta della Fed, che ieri ha deciso un modesto aumento dei tassi di interesse per la prima volta in nove anni, afferma l’idea di una nuova “normalità” in materia di politica monetaria: non è piu’ “normale” attendersi aumenti regolari e rapidi dei tassi, come è sempre accaduto tra il 1970 e il 2006, non è più “normale” alzare i tassi per evitare surriscaldamenti dell’economia che potrebbero richiedere frenate recessive. Non è più “normale” aumentare i tassi magari di 50 punti base come capitava negli anni difficili per l’inflazione. Il nuovo “normale” di Janet Yellen, il presidente della Banca Centrale americana, prevede che i tassi sui Fed Funds (Interbancari) arrivino per la fine del 2016 a quota 1,375%, con soli quattro altri aumenti di 25 punti base già annunciati per l’anno prossimo, dopo quello di ieri.
È questo l’elemento più importante emerso dal comunicato di ieri, che ha accompagnato due giorni di riunioni del Federal Open Market Committee, la svolta verso aumenti preannunciati molto contenuti dei tassi. Di più, la Yellen ci conferma che il percorso di crescita dell’economia americana si è modificato sul piano strutturale, insieme a quello dell’inflazione. Anche questo fa parte della nuova normalità in cui si trova il pianeta America. L’economia è migliorata, come ci ha detto il Presidente della Fed, siamo finalmente in sicurezza dopo il rischio di una depressione per la crisi del 2007/2009, l’inflazione arriverà nel medio termine, cioè nel giro di due o tre anni, agli obiettivi del 2%. Solo dopo vedremo se si tornerà al vecchio “normale” se cioè, raggiunto il 2% per l’inflazione quell’obiettivo sarà superato costringendo ad aumenti più forti dei tassi, superiori cioè a quel 4% medio che economisti e mercati stimano oggi come livello massimo da qui ai prossimi anni. La conferma è chiara: nel medio periodo avremo «solo graduali incrementi dei tassi che resteranno per un certo tempo sotto i livelli che dovrebbero prevalere nel lungo periodo» recita la Yellen.
Per questo i mercati sono tranquilli nonostante fino a un anno fa l’aumento del tassi fosse molto temuto e continuasse a generare incertezze e volatilità per gli indici di borsa. Per un anno e più, con molta chiarezza, la Yellen ha detto esattamente cosa avrebbe fatto, offrendo un percorso altrettanto chiaro anche prima del comunicato di ieri. Ieri la Fed ci ha anche detto che nell’insieme tenendo conto degli sviluppi interni e internazionali osserva rischi equilibrati per l’outlook sia per la crescita che per il mercato del lavoro.
La Yellen in questi anni, e prima di lei Bernanke, sono stati esposti a molte critiche, soprattutto in Europa e soprattutto fra chi non condivideva il nuovo “normale”, non solo per la Fed, ma per l’intera economia americana. Con la decisione di ieri si è chiusa un’era “straordinaria” come ha detto la Yellen, con tassi vicini allo zero per molti anni e in cui la posizione vicina ai repubblicani di Bernanke e quella vicina ai democratici della Yellen, che per molti anni è stata il numero due, hanno governato insieme in assoluta armonia. Insieme, quasi sempre con l’unanimità del consiglio, Bernanke e Yellen hanno capito quanto fosse necessario sostenere la crescita con ripetute manovre di quantative easing. Ls Fed ha cominciato subito ad affrontare la crisi, molto prima dell’Europa che tentennava, che non capiva le nuove dinamiche deflazionistiche soprattutto per via delle reticenze tedesche. Con molte conferme: la prima è che l’istituzione, prevale sulla politica, soprattutto nel momento del bisogno. Non è un caso se i repubblicani in particolare chiedono un controllo più serrato della Banca Centrale americana. Ma l’introduzione di questi controlli non avverrà: anche i più conservatori fra i repubblicani sanno che il contraccolpo per la fiducia nell’economia americana sarebbe pericolosissimo. La seconda conferma riguarda il prevalere della flessibilità e l’indipendenza contro la rigidità. In Europa, dove sono prevalsi modelli di austerità e di rigidità fiscale ci troviamo oggi indietro rispetto all’’America. Abbiamo perso almeno tre anni di crescita potenziale.
Si tratta di capire ora fino a che punto arriverà il nuovo “normale” di cui oggi dobbiamo prendere atto anche in Europa, sia dal punto di vista dell’analisi economica, sia da quello della politica. Le problematiche sono ovviamente diverse. In America il nuovo “normale” della Fed riflette sfide storiche, prima di tutto quella di una debolezza sconosciuta della classe media; del gap fra tecnologia e addestramento o comunque di rapido adeguamento della forza lavoro, di una crisi strutturale della domanda e così via, sfide “secolari” per rischio di stagnazione come ama ripetere Larry Summers, l’economista democratico di Bill Clinton e Barack Obama che nel momento peggiore della crisi fu chiamato a governare la successione fra George W. Bush e Barack Obama nella stanza dei bottoni repubblicana e lavorando con Hank Paulson mise a punto in tempo di record un piano di stimoli fiscali. Anche quello era “nuovo” normale.
Mario Platero