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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Gelli e la «morte del processo» che gli permise di vivere sostenendo che la P2 era solo un gruppo di amici

L’ultima inchiesta si concluderà con la formula «per morte del reo». A 96 anni Licio Gelli se n’è andato con un’indagine a suo carico ancora aperta, sebbene con una richiesta di archiviazione pendente: quella per l’omicidio di Roberto Calvi, il «banchiere di Dio» iscritto alla Loggia P2 e trovato morto sotto il ponte di Londra, nel giugno 1982. Il pubblico ministero aveva chiesto la riapertura dell’inchiesta sul Venerabile come mandante del delitto, con questo movente: «Evitare che Calvi potesse esercitare il suo potere ricattatorio e svelare i segreti a sua conoscenza». 
Alla fine dei nuovi accertamenti, però, nell’ottobre 2013 lo stesso pm aveva concluso per l’archiviazione, come già accaduto in passato: «Gli elementi probatori di cui si dispone consentono di ritenere molto plausibile una corresponsabilità nel delitto, ma non hanno assunto il valore di prove certe». Esito che ha lasciato insoddisfatto l’erede di Calvi, il figlio Carlo, il quale aveva chesto al giudice delle indagini preliminari di ordinare nuove accertamenti. La decisione del giudice era attesa a giorni, ma l’indagato non ce l’ha fatta a vedere la fine. Così i segreti alla base del possibile ricatto rimarranno tali: morto Calvi (assassinato con simulato suicidio) e morto Gelli nel suo letto, resta la leggenda dei misteri che finiscono nella tomba insieme ai loro custodi. 
Misteri che cominciano quando il futuro capo della P2 è poco più che un ragazzo e si mostra già abile nei doppi e tripli giochi tra partigiani, repubblichini, Alleati anglo-americani, ex fascisti, e secondo qualcuno persino servizi segreti dell’Est. Manovre che ne caratterizzeranno l’intera esistenza, insieme all’affiliazione alla massoneria: recinto nel quale coltiva contatti e – sosterranno le accuse a suo carico – tesse trame contro la democrazia. 
I segreti del fallito golpe Borghese (dicembre 1970) passano anche da lui se venticinque anni dopo, nel 1995, un giudice sarà costretto a chiudere il procedimento per prescrizione, stabilendo però che «risulta obiettivamente accertato un ruolo di Gelli nei fatti di cospirazione politica». Pare che toccasse a lui il compito di arrestare il presidente della repubblica Giuseppe Saragat, e che fu proprio una sua telefonata a bloccare il blitz all’ultimo momento. Ma il Venerabile ha sempre taciuto o negato ogni responsabilità a seconda delle circostanze. 
Da allora, mentre la P2 si espandeva arruolando esponenti politici, funzionari dello Stato civili e militari, imprenditori, giornalisti e personalità influenti di ogni tipo, il nome di Gelli ha accompagnato pressoché ogni vicenda misteriosa, e ogni processo in cui s’intrecciavano politica e affari, crimini e patti inconfessabili. Veri o presunti. Dalle stragi nere al sequestro Moro ad opera dei brigatisti rossi, dall’eccidio alla stazione di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti e oltre duecento feriti) al crac del Banco Ambrosiano, con correlata scalata al Corriere della Sera, passando per l’omicidio Pecorelli e molte altre indagini su massoneria deviata e finanza drogata. Vicende nelle quali ha avuto quasi sempre al suo fianco l’avvocato romano Michele Gentiloni Silveri, che lo assisteva anche nell’ultimo procedimento sull’omicidio Calvi. 
Ma il mistero più grande, quello che più ha inciso sulla sua storia personale e forse del Paese intero, riguarda la trama grazie alla quale è riuscito a farsi assolvere nel processo P2, quello dov’era imputato di «cospirazione politica mediante associazione». Un altro verosimile esercizio del potere occulto. Se la commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Tina Anselmi è faticosamente riuscita a denunciare l’inquinamento istituzionale provocato da Gelli, attraverso una «ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior rilievo, sia civili che militari, e ad una costante pressione sulle forze politiche», alla magistratura restava da chiudere il cerchio sul fronte giudiziario. Dopo la scoperta degli elenchi dei quasi mille iscritti negli uffici di Castiglion Fibocchi, la Procura di Milano cominciò a indagare, ma presto arrivò lo «scippo» (così definito per come si svolsero i fatti e si accavallarono le indagini, con tanto di conflitto di competenza davanti alla Corte di Cassazione deciso dalla sezione feriale durante l’estate del 1981) che spostò tutto a Roma. Mentre Gelli era latitante all’estero. In due anni arrivò la richiesta di proscioglimento per i coimputati, e quando il processo al Venerabile (nel frattempo arrestato in Svizzera ma non estradato per il reato di cospirazione) approdò sul tavolo del pubblico ministero Elisabetta Cesqui, lei stessa constatò che «era già morto», per come era stato condotto fin lì. La battagliera inquirente provò a rianimarlo, utilizzando gli elementi raccolti dalla commissione d’inchiesta che potevano provare il condizionamento esercitato su governo e Parlamento. Ma fu tutto inutile. La «morte del processo», certificata dalla definitiva assoluzione, ha consentito a Licio Gelli di sopravvivere potendo sostenere che la P2 era solo un gruppo di amici. Massoni e influenti, ma niente di più.