Libero, 17 dicembre 2015
Elogio della Malesia, ricca, islamica e felice
Quando, dopo otto ore di volo, scendi dall’aereo ti accorgi subito che sei in un aeroporto hi-tech. Al controllo passaporti devi mettere gli indici delle due mani sul mini-display che rileva le tue impronte digitali, senza tante storie, direttive o discussioni. Si fa così. Punto. La giovane poliziotta si esprime in perfetto inglese, con gentilezza, e fa una domanda retorica: «Viene dall’Italia?». Nonostante il jet-lag, prendo coraggio e le chiedo il significato di una mostrina che porta sul petto, in evidenza. Con orgoglio, risponde: «È un encomio. Me lo sono meritato sul campo». E un largo sorriso illumina due bellissimi occhi scuri. Il viso è incorniciato da un velo nero che valorizza il suo ovale: copre i capelli, inserito nella divisa, senza dare fastidio, sotto il cappello d’ordinanza. C’è poca gente, o meglio tanti sportelli, e ne approfittiamo per chiedere come mai le sue colleghe non hanno il velo. «Io sono musulmana e lo porto, ma nessuno è obbligatorio. Conviviamo con varie religioni. Siamo tolleranti. L’abbiamo imparato con il dominio inglese. L’indipendenza è arrivata solo del 1957…».
QUATTRO RELIGIONI
In effetti la Malesia è uno dei (pochi) veri e propri “melting pot” riusciti, un miscuglio di etnie e di culture: malesi (50%), cinesi (22%), indiani Tamil e altri. Moltissimi i meticci. I malesi sono i soli ad avere pieni diritti politici e civili. I cinesi, concentrati nei centri urbani, spiccano nel commercio. Di più recente immigrazione pakistani, bengalesi e nepalesi che lavorano nell’edilizia e nelle piantagioni: ne ho incontrati diversi nelle fabbriche dell’olio di palma gestite dal Mpoc (Malaysian palm oil council).
Oltre all’islam (63,7%), c’è il buddismo (17,7%), il cristianesimo (9,4%), l’induismo (6%) e altro: significa, soprattutto, un gran numero di feste religiose. Certo, ogni tanto emergono tensioni etniche, mai del tutto sopite. Mille contraddizioni, dualismi e curiosità (anche geografiche) caratterizzano quest’area dell’Asia sudorientale, costituito dalla Malesia Occidentale e da quella Peninsulare. L’unico posto al mondo dove convivono nove sovrani ereditari e quattro capi di Stato.
Che siano proprio le contraddizioni a dare sprint alla Federazione che, di recente, ha ospitato Obama e il summit dell’Asean (la Ue asiatica)? Infatti oggi tra le (ex) tigri asiatiche, sembra si salvi solo la Malesia, nonostante la svalutazione del ringgit iniziata martedì 10 agosto (in seguito alla prima caduta dello yuan, poi seguita da altre, anche all’inizio di dicembre 2015) e il dimezzamento del prezzo del petrolio, in uno scenario dove anche le quotazioni delle altre materie prime segnano il passo (e il dollaro si rafforza). Nonostante tutto, Kuala Lumpur è un immenso cantiere dove si lavora tutta la notte e nei weekend. Non per niente, secondo il report Credit Suisse, c’è un solo Paese al mondo dove i milionari in dollari raddoppiano nei prossimi cinque anni: la Malesia. Ed è proprio sotto l’ombra delle Petronas Towers che ruggiscono le vere tigri del denaro e non nella confinante Singapore, che vedrà il numero dei ricchi aumentare “solo” del 50%. In un lustro i milionari residenti in Malesia passeranno da 31mila a 64mila.
L’EXPORT
Certo, l’export aiuta. Specie quando si hanno materie prime (stagno, caucciù, gas, oil, ecc.) con una moneta che si svaluta. Basti pensare che nel 2015 l’Italia ha raddoppiato le importazioni di olio di palma destinato alla nostra industria dolciaria, tra mille polemiche dovute a una feroce guerra commerciale a livello intercontinentale. In primo piano troviamo infatti, ad esempio, colossi come Ferrero e Barilla. Dal colosso dolciario di Alba spiegano di aver raggiunto l’utilizzo del 100% di olio di palma segregato e sostenibile, con una certificazione di filiera. A tal proposito Carl Bek-Nielsen, un imprenditore olandese arrivato a coltivare le piantagioni passando per Genova, e Ceo della United international Enterprises spiega che «la certificazione di filiera, cioè completa dall’origine al trasporto, alla fine del processo, viene a incidere per circa venti dollari a tonnellata, su un prezzo della materia prima che oggi si aggira sui 530 dollari». Anche da Parma confermano che «l’olio di palma è un buon ingrediente e che, se certificato, rispetta la salute e l’ambiente».
PRODOTTO DI PUNTA
Vediamo qualche numero. «Tra gennaio e ottobre, secondo Kuala Lumpur, sono arrivate in Italia 307mila tonnellate di olio malese, contro le 184mila del 2014», spiega Yuen May, direttore del Malaysian palm oil board (Mpob), il prodotto di punta del Paese: il 13% del Pil dopo petrolio ed elettronica. La Malesia è il secondo produttore ed esportatore al mondo dell’olio vegetale e vanta il 25% di olio di palma certificato dall’organizzazione internazionale Rspo (Roundtable on sustainable palm oil) che garantisce la sostenibilità di tutta la filiera (foreste, biodiversità, condizioni di lavoro, qualità del prodotto).
Il ministro dell’Agricoltura, Datuk Uggah Embas, spiega: «La nostra crescita in Italia è dovuta alla nostra qualità che ci consente di guadagnare terreno rispetto ad altri Paesi». Prima di congedarci, uno dei ministri chiave di Kuala Lumpur si raccomanda di portare in Italia un messaggio importante per gli imprenditori: «Faccio ponti d’oro a chi investe in Malesia». Un giorno per costituire la società e dieci anni senza pagare le tasse.
Quando, al controllo passaporti per tornare a Milano, si ripete l’operazione “impronte digitali” con i due indici sul display, anche se non c’è più la giovane poliziotta, domandiamo «Perché?». L’agente risponde: «Vogliamo essere certi che chi entra a casa nostra, sia poi la stessa persona che esce…».