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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Merkel, Renzi e l’arma del gas russo

La differenza fra il petrolio e il gas è che il primo arriva da tutto il mondo via nave: si compra da chi si vuole. Il secondo, per lo più, arriva ancora attraverso i tubi, fissi e costosi, dei gasdotti. Ecco perché, strategicamente, il petrolio è una sorta di randello, che uno mulina alla cieca. Il gas, invece, è un’arma mirata, letale, che può lasciare la vittima designata al buio e al freddo delle centrali elettriche e dei caloriferi spenti. E così Vladimir Putin la usa da dieci anni, con cinismo e spregiudicatezza. Il problema è che non lega solo il consumatore al fornitore. È un’arma a doppio taglio: anche il fornitore, se vuole vendere, ha bisogno del consumatore. Lo stesso Putin ha avuto modo più volte di accorgersene, in questi dieci anni, ogni volta che il colpo inferto dalla sua arma preferita gli è rimbalzato addosso. La minaccia ripetuta di tagliare il gas verso l’Europa ha convinto molti, nella Ue, che è meglio non dipendere troppo dalla Russia. E, per questo, anche l’ultima azzardata scommessa, il raddoppio del Nord Stream, il gasdotto verso la Germania, potrebbe svuotarglisi in mano. Per capire il rapporto fra il Cremlino e Gazprom, bastano tre cifre. La metà dei soldi con cui funziona lo Stato russo viene dalle tasse sui prodotti energetici, petrolio, ma, in particolare, gas. Quasi l’80 per cento della produzione russa di metano è in mano a Gazprom, che controlla anche il 100 per cento delle esportazioni. Il monopolio è lo strumento più fidato dei disegni di politica estera del nuovo zar. Basta guardare il prezzario del metano russo. Nella infida Polonia, costava, nel 2013, 526 euro a metro cubo. Molto più che in Italia: 440 euro. E lontanissimo dall’amica Germania: 379 euro. Nelle strategie di Putin, del resto, le convenienze economiche vengono per ultime. Il gasdotto che attraversa l’Ucraina rifornisce l’Europa senza problemi, ma Putin preferisce ricattare Kiev, tentando in ogni modo di aggirare il vecchio tracciato, con nuovi, costosi, gasdotti che hanno l’unico merito di non attraversare il territorio ucraino. Ci è riuscito con il Nord Stream, diretto in Germania, nel 2011. Ma aver mulinato troppo la spada di Gazprom gli è costato il no della Ue al gemello South Stream, visto come un pericoloso aumento di dipendenza europea dal metano russo. Allora ha provato a stringere un patto con Erdogan, puntando su un gasdotto in terra turca. Ma, anche qui, più ha potuto la politica: il contrasto sulla Siria ha, di fatto, fatto saltare il gasdotto turco. Mettendo alle strette Putin. Il Cremlino ha infatti bisogno di dare ossigeno al suo gigante del gas. Con i prezzi che crollano e la domanda stagnante, Gazprom vede nel 2015 i suoi proventi (cruciali per il bilancio russo) cadere del 21 per cento, dopo essere scivolati già del 10 per cento (ma dell’86 per cento se si conta in dollari, anziché in rubli) nel 2014. Nonostante la grande fanfara che ha accolto l’accordo per la fornitura di metano alla Cina, l’alternativa asiatica al cliente europeo è ancora remota. I gasdotti sono da costruire e Gazprom non ha i soldi per farlo. Caduta anche l’opzione turca, l’ipotesi di raddoppiare il Nord Stream – vista finora più che altro come un marcaposto a futura memoria – è diventata per il Cremlino una priorità. Dall’altra parte, Putin ha trovato orecchie più attente del previsto. Nelle aziende partner, anzitutto. Il crollo dei prezzi del petrolio e la conseguente paralisi degli investimenti petroliferi spinge Shell a cercare altrove occasioni di investimento. Lo stesso vale per un gigante dell’elettricità come E.On, alle prese con la decimazione dei profitti seguita alla programmata chiusura delle centrali nucleari e alla crescita delle rinnovabili. Ma un’attenzione non scontata la scommessa russa ha, probabilmente, trovato anche nella politica tedesca. La Merkel e i suoi alleati socialdemocratici sanno che la Germania ha pagato più degli altri paesi – in termini di mancato export, impianti costruiti in Russia che girano a vuoto, piani di investimento rimessi nel cassetto – le sanzioni al Cremlino per la guerra ucraina. Il mondo degli affari ha trangugiato la medicina, ma non l’ha ancora digerita. E Berlino deve anche gestire la complicata transizione postnucleare: il boom delle rinnovabili non basta, la Germania ha dovuto ricorrere spesso al carbone, smentendo tutti i suoi manifesti ecologici: il gas (anche russo) inquina di meno. Infine, dimostrare a Putin che sull’Ucraina non si molla, ma l’ostracismo non è totale e pregiudiziale, è una carta di cui la diplomazia tedesca sente il bisogno. Anche a rischio di irritare gli alleati europei. L’Italia, altrettanto colpita dallo stop nell’interscambio, ha mal digerito questi rinnovati rapporti tra Berlino e Mosca. Oggi Renzi vola a Bruxelles, il dossier gas non è ufficialmente sul tavolo del vertice tra i leader, ma l’Italia farà di tutto per riconquistare posizioni. Il problema, poi, è che il potenziamento del Nord Stream può soddisfare la politica di Berlino, ma economicamente non sta in piedi. Portare al doppio la capacità di un gasdotto di cui, attualmente, si utilizza solo la metà della capacità esistente non sembra una necessità. La verità è che l’Europa ha sempre meno bisogno di metano. Siamo tornati a consumarne quanto venti anni fa. Frutto della crisi economica, ma, soprattutto, dell’aumento di efficienza delle centrali, delle industrie e, in particolare, delle case. Nel futuro – 20 o 30 anni, quanto bisogna, almeno, considerarne per un impianto come un gasdotto – il metano sarà sempre più un combustibile di riserva, da utilizzare – come già avviene spesso oggi – nei momenti di picchi di consumo, quando sole e vento non bastano o non sono disponibili. Su questa base, il metano che arriva attualmente è più che sufficiente. E se quello fornito attualmente da Norvegia e Olanda dovesse diminuire esiste l’alternativa del trasporto via nave o di accordi con fornitori di enorme potenziale, come l’Iran, titolare delle più grandi riserve di metano al mondo, o l’Egitto. Come detto più volte in questi anni, a Bruxelles, il nodo, piuttosto, è rendere più efficiente e meglio ripartita la distribuzione del metano che già arriva fra i paesi europei. D’altra parte, il partner russo appare, come sempre, assai poco affidabile. Gazprom dovrebbe farsi carico di metà dell’investimento nel nuovo gasdotto ed è assai dubbio che possa trovare 5-10 miliardi di dollari, avendone già impegnati 70 per i gasdotti verso la Cina. Inoltre, se i contratti valgono, Nord Stream per Gazprom sarebbe subito in perdita, perché il gigante russo deve pagare i diritti di transito sui gasdotti ucraini anche se non ci passa dentro una molecola di gas, fino al 2030. Pare difficile che l’Europa accetti di vedere l’Ucraina apertamente truffata. Questo non significa che, alla fine, il raddoppio del Nord Stream non vada in porto. Ma il tentativo della Cancelleria di Berlino di dire che la decisione è in mano ad aziende private e non ai governi è vuoto in partenza. Le leggi comunitarie impediscono a Gazprom di controllare un gasdotto e anche la distribuzione del relativo metano. È il motivo per cui è saltata South Stream. Perché Nord Stream ne resti indenne, occorre che la politica, a Bruxelles, decida di esentarla.