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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Storia della lista P2. L’elenco completo dei nomi uscì negli anni Novanta, cioè troppo tardi per la cronaca e troppo presto per la storia

A un dato momento divenne complicato scrivere «piduista», o anche, al limite, «piduisti». Il problema delle liste – e la scandalistica nazionale ne ha sempre prodotte in gran quantità – è che ogni elenco tiene assieme condizioni diverse che però nel mucchio non si distinguono più. Per cui, cominciate a fioccare le prime cause per diffamazione, la più insidiosa delle quali riguardò il nome del futuro presidente della Rai Enrico Manca, il giornalismo escogitò una formula di salvaguardia per cui al posto di “piduista” si prese a scrivere: «il cui nome è stato trovato nella lista della P2». Alcuni – i più cauti, ma anche i più maliziosi – aggiungevano a quel punto il numero di tessera, quando non la data di iscrizione e il pagamento delle quote. Con quasi mille nomi, va da sé, la P2 fu la madre di tutte le liste. Ma il guaio fu anche che a Gelli furono sequestrate varie liste, con aderenti diversi e posizioni in sospeso. In pochissimi ammisero l’adesione: uno fu Maurizio Costanzo, con un’intervista che non si è mai più rivista; l’altro fu Fabrizio Cicchitto che pure, nemmeno un anno prima, aveva dato un’intervista in cui metteva in guardia: «Non c’è solo la P38, c’è anche la P2». Molti altri scomparvero in attesa che passasse la bufera; oppure si fecero scagionare da giurì d’onore, commissioni o tribunalini interni dei partiti o delle aziende. Una delle leggende più spassose riguarda il giovane Berlusconi di cui si disse che inizialmente avesse cercato un omonimo cui dare dei bei soldi per caricargli l’iscrizione. Sennonché fu rinvenuto in effetti un altro Silvio Berlusconi, ma era un bimbo di 4 anni. Quindi il non ancora Cavaliere smentì sdegnato che un fondatore di città come lui non poteva essere ridotto al rango di apprendista muratore. Parecchi persero la faccia; alcuni, come gli alti gradi degli Stati maggiori e un numero impressionante di generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, anche il posto perché dovettero dimettersi. Altri invece non vennero nemmeno sfiorati. Altri ancora fecero addirittura carriera. Il presidente della Repubblica Pertini definì la P2 «un’associazione a delinquere»; mentre il suo successore Cossiga ne promosse gli aderenti a «galantuomini». Al dunque lo scandalo si risolse in una specie di epurazione, però controversa, incompiuta, arbitraria, all’italiana. Poi venne fuori che c’era una seconda lista, più vera, e altri mille seguaci occulti. Seguirono, nel corso degli anni inchieste parlamentari, processi, libri, documentari, film. I nomi dei piduisti si trovano in una gigantesca e beffarda lapide di marmo dell’artista Luca Vitone. I Litfiba hanno dedicato alla P2 un loro brano. Il giudice Giuliano Turone, che sequestrò gli elenchi a Castiglion Fibocchi, ha scritto (con Anna Vinci) e anche cantato in un musical, Tra le pieghe della P2. Ma il trattamento, per chi ne faceva parte, non è stato uniforme. Di lì a qualche anno Sindona e Calvi ci lasciarono la pelle. Il Venerabile, piuttosto pignolo, si fece sequestrare anche un fantastico repertorio, subito detto “Le Pagine Gialle della P2”, in cui gli iscritti erano classificati per settore a seconda delle loro utilità, a partire da “Alberghi”. Consultarlo oggi spiega perché, dopo rimbalzi e palleggi, l’allora governo Forlani chiuse l’elencone in un cassetto. C’era lì anche il nome del suo capo di gabinetto, peraltro in compagnia del segretario generale del Quirinale, Picella; del segretario generale della Farnesina, Malfatti; e dell’ex segretario generale di Montecitorio, Ciccio Cosentino, cui forse si deve la stesura del Piano di Rinascita, che in realtà sono due. C’erano il segretario del Psdi Pietro Longo, l’ex segretario di Saragat Costantino Belluscio, deputati di tutte le correnti dc e delle varie obbedienze del craxismo nascente. E soprattutto quattro ministri: oltre a Manca, Stammati, Sarti e Foschi. Ma insieme con il superpoliziotto gastronomo, Federico Umberto D’Amato, e con il generale Dalla Chiesa, che pure spiegò di essersi voluto “affacciare” sulla loggia per capirci qualcosa, si ritrovò negli elenchi, con il debito sconcerto, l’intera catena di comando dei servizi segreti, vecchi e nuovi, Sifar (Miceli e Maletti), Sismi (Santovito), Sisde (Grassini), Cesis (Pelosi) freschi reduci del caso Moro. L’Eni era rappresentato da presidente e dal vice, peraltro in lotta fra loro. Tra le banche spiccavano il Montepaschi e il Banco di Roma. Angelone Rizzoli, Bruno Tassan Din e Franco Di Bella garantivano gli affari, i debiti e il controllo del gruppo Rizzoli Corriere della Sera. Ma scendendo di livello è irresistibile ricordare che fra i mille che Gelli designò come «la crema» figuravano anche Alighiero Noschese, Claudio Villa, Gino Latilla, un paio di ufologi, qualche gaglioffo toscano in odore di Amici miei e diversi esoteristi della domenica. Chi voglia approfondire la faccenda, fetida e anche un po’ sanguinosa, ha a disposizione una biblioteca di atti parlamentari raccolti dalla benemerita commissione presieduta da Tina Anselmi. Ma l’indice anche ragionato dei nomi, oltre 500 pagine, uscì solo a metà degli anni 90. Per la cronaca era troppo tardi, per la storia troppo presto.