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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

I sei anni di depistaggi sul caso Cucchi

Il 30 giugno scorso, il carabiniere Riccardo Casamassima detta a verbale: «Il maresciallo Mandolini (comandante della Stazione dei carabinieri Roma-Appia, ndr) mettendosi una mano sulla fronte mi disse: “è successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”. Mandolini si diresse verso l’ufficio del comandante di Torvergata e, in presenza della mia compagna, il carabiniere Rosati, aggiunse il nome dell’arrestato, Cucchi, e disse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti della Polizia Penitenziaria». La verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la sua drammaticità. In cinquanta pagine il pm Giovanni Musarò ricostruisce sei anni di depistaggi, di silenzi omissivi, di complicità dentro un microcosmo dell’Arma dei carabinieri.
Nuova inchiesta
La nuova inchiesta della procura di Giuseppe Pignatone nata un anno fa, dopo le deposizioni di due detenuti e due carabinieri, e grazie alle intercettazioni telefoniche e poi agli interrogatori di oltre quaranta testi, è arrivata al giro di boa. Adesso un nuovo perito dovrà decidere se riformulare la gravità delle lesioni subite dal povero ragazzo pestato da tre carabinieri (ad oggi sono state ritenute lesioni guaribili tra i 20 e 40 giorni). E se verrà accertato il nesso di casualità tra il pestaggio e la morte di Cucchi, ai carabinieri indagati sarà contestato il reato di omicidio preterintenzionale. Sei anni di depistaggi per nascondere una drammatica verità. Ne è convinto il pm Musarò che lo scrive nella richiesta di incidente probatorio: «Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili, per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al Comando Stazione di Roma Appia». Furono i carabinieri che arrestarono e poi perquisirono Stefano Cucchi a massacrarlo di botte, a sottoporlo a quello che il pm Giovanni Musarò definisce «un violentissimo pestaggio». A leggere gli atti delle indagini vengono fuori le omissioni come, per esempio, l’assenza dei nominativi dei due carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, che lo pestarono di botte. È impressionante il dialogo intercettato tra uno dei carabinieri autori del pestaggio e la sua ex moglie. Alla donna lui aveva raccontato sei anni prima di aver partecipato al pestaggio di Cucchi. Quando il carabiniere viene interrogato nel luglio scorso, la donna gli invia un sms: «Non mi ha stupito leggere il tuo nome, prima o poi sarebbe successo. Ecco quali erano i problemi al lavoro...».
Brogliacci sbianchettati
Preoccupato, il carabiniere chiama la donna: «Che cosa volevi dire? Prima fammi capì’ tu hai la palla di vetro? Io non ho fatto niente, perché dovevo aspettarmi una cosa del genere?». Lei: «Tu non hai fatto niente? È quello che raccontavi a me, a tua mamma, a tuo padre. Che te ne vantavi pure...che te davi le arie. Raffaè hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». Si capisce, leggendo le carte, che tra le stazioni dei carabinieri di Roma-Appia, Torvergata, Tor Sapienza, si è cercato di nascondere i fatti. Si è usato il «bianchetto» per cancellare il nominativo di Cucchi dal registro dei fotosegnalamenti. Cucchi, nella ricostruzione della Procura di Roma, si oppone al rilevamento delle impronte digitali, si dimena, gli parte uno schiaffo contro un carabiniere. E a quel punto il pestaggio scientifico di altri tre carabinieri.
Sei anni di bugie
Perché viene cancellato il suo nome da quel registro? Perché il maresciallo della stazione interrogato a processo dice che il fotosegnalamento non era obbligatorio? E perché i carabinieri che massacrano di botte Cucchi, ufficialmente non esistono e vengono protetti dalle stazioni dell’Arma? Sei anni dopo, la verità comincia ad affermarsi. Nel novembre dell’anno scorso la Corte d’assise d’Appello nell’assolvere anche i medici del Pertini mandarono gli atti alla Procura di Roma, ravvisando il comportamento omissivo di alcuni carabinieri. E la Cassazione l’altro giorno ha confermato che non sono stati gli agenti della penitenziaria a picchiare il ragazzo. Poi anche quel muro alzato da un «codice d’onore» rispettato da commilitoni, sottufficiali, familiari, si è sgretolato. È ora La famiglia di Stefano Cucchi potrà avere finalmente giustizia.