La Stampa, 17 dicembre 2015
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Heiddeger privato, tra antisemitismo e pregiudizi
Se è vero che Martin Heidegger era antisemita in un modo talmente radicale da ritenere che «l’Ebreo impedisca l’accesso all’Essere» o che costituisca «la pietra d’inciampo» sul cammino del filosofo lungo la storia dell’Essere, bisognerebbe avere il coraggio di confinarlo entro il recinto dei pensatori di regime alla Alfred Rosenberg e, senza patemi, smettere di leggerlo (o quantomeno partecipare al suo de-rubricamento smettendo di scriverne). Ma non sembra essere questo l’intento dell’ultimo pamphlet di Donatella Di Cesare Heidegger & Sons pubblicato da Bollati Boringhieri.
Pregiudizi
Qui infatti Di Cesare sfida le leggi della filosofia iniettando consistenti dosi di metafisica nelle affermazioni antisemite di Martin Heidegger, per mostrare come il suo antisemitismo non fosse semplicemente un atteggiamento, una forma di opportunismo, un pregiudizio fertilizzato con il concime dell’impoliticità, ma avesse «una provenienza teologica, un’intenzione politica, un rango filosofico». Occasione di questa rilettura, la recente pubblicazione dei famigerati Quaderni Neri, riflessioni scritte da Heidegger tra il 1931 e il 1938 curate da Peter Trawny e tradotte in italiano da Alessandra Iadicicco per Bompiani. Un testo effettivamente intriso di spropositi, ma soprattutto privo di qualsivoglia costruzione: niente a che veder e con l’architettura che teneva in piedi Essere e Tempo o il saggio su L’origine dell’opera d’arte. Qui siamo di fronte a aforismi senza saggezza, a massime ridondanti, a brani di ragionamento lasciati aperti, o forse più propriamente lasciati a metà. E il rischio filosofico che si corre a cercare di sviscerarne il senso, è quello che Hanna Arendt, nel suo saggio Heidegger compie ottant’anni, aveva definito «fuga dalla realtà»: «Innumerevoli intellettuali e cosiddetti scienziati, non solo in Germania, ancor sempre preferiscono non già parlare di Hitler, Auschwitz, genocidio, “eliminazione” come politica permanente di spopolamento, bensì fermarsi, a seconda della circostanza e del gusto, a Platone, Lutero, Hegel, Nietzsche, ma anche a Heidegger, Jünger o Stefan George, così da nascondere il fango di quel fenomeno terribile, imbellettandolo di scienza dello spirito e di storia dell’ideologia».
Lo chalet nella foresta
In questa cornice, l’interpretazione di Donatella Di Cesare, che ha senz’altro il merito di ricordare quanto e come Heidegger fosse antisemita (oltre a contribuire a un utile inquadramento della vicenda all’interno dei cortili accademici, normalmente disertati dai comuni lettori), attribuisce ai Quaderni un peso che questi non sembrano in grado di reggere, proprio per via di una certa fragilità concettuale che li contraddistingue. Erano anni cupi e gravissimi, quelli in cui Heidegger appunta le sue riflessioni, ma di quella gravità egli stesso ha una percezione distorta, forse a causa dell’angustia del suo punto di vista. Fa bene Di Cesare a sottolineare come quei pensamenti si svolgessero nella dimensione isolata della Hütte di Todtnauberg, una casetta smarrita nella Foresta Nera perfettamente simbolica di quanto il filosofo fosse «refrattario al movimento», distante «non solo dall’universo cosmopolitico che si apre oltre la città, ma anche dai mezzi di transizione e trasferimento, da tutto quello che oggi si chiama globalizzazione». Questa sua collocazione marginale lo rende marginale sui temi della politica, che invece per sua stessa natura partecipa dell’apertura, del confronto, dei dibattiti tra opinioni divergenti.
La solitudine
Heidegger è solo, i suoi studenti migliori, da Karl Löwith a Hannah Arendt, lo hanno abbandonato – e anche lui si era allontanato da loro con la goffaggine e l’impaccio di un pover’uomo, più che di un mentore che elabori o articoli la figura del tradimento – e da questa solitudine emergono riflessioni tronche, evocative, religiosizzanti, ma mai autenticamente religiose né autenticamente filosofiche. È vero, come scriveva Hans Jonas, che in Hitler e nel nazionalsocialismo Heidegger identificò lo sforzo di un inizio autentico, e che in quell’ammirazione vi era qualcosa di più di un «traviamento personale», ma l’intenzione di trarre da quell’infatuazione politica un pensiero è fallita, o meglio, non si è mai strutturata. Ne resta qualche abbozzo, una pennellata sbiadita qua e là, me niente che sia paragonabile all’impresa di un genio filosofico, come fu invece per Essere e Tempo. In un divertissement dedicato al suo amante-maestro, Hannah Arendt, convinta che una cosa fosse la teoresi, altra la politica, ebbe modo di osservare che nessuno conosce meglio la natura delle trappole di chi è rimasto in trappola tutta la vita. Ecco, viene voglia di tornare a rileggerla.