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 2015  dicembre 17 Giovedì calendario

Alzare i tassi fa bene all’America? Economisti a confronto

Il più coerente no all’aumento dei tassi viene da un uomo che stava per sedersi sulla poltrona ora occupata da Janet Yellen. Larry Summers, già ministro del Tesoro di Clinton, era stato il primo candidato di Barack Obama alla presidenza della banca centrale americana. L’avevano scartato perché appariva tra i corresponsabili della deregolamentazione finanziaria pre-crisi.
Ha motivato bene il suo discorso, tanto che nessuno lo accusa di parlare per rancore. Ritiene che l’economia mondiale si trovi a una svolta tale da rendere obsoleti i vecchi parametri. Vede la ripresa Usa segnata da paradossi: i disoccupati sono ormai pochi eppure i salari non salgono, si parla tanto di nuove tecnologie ma la produttività non cresce.
Summers (due zii premi Nobel per l’economia) ha dato il via a un dibattito planetario. Secondo lui, i tassi di interesse di equilibrio dell’economia mondiale sono assai più bassi di quanto non si ritenesse fino a ieri. Certi dati che fino a poco tempo fa i banchieri centrali usavano come bussola ora non sembrano più aiutare. Alzare i tassi adesso potrebbe compromettere la ripresa.
Dibattito aperto
Non tutti sono d’accordo ovviamente. L’anziano Martin Feldstein, tra i più rispettati economisti della destra, ritiene che aumentare il costo del denaro sia appropriato. A metà strada si colloca Ken Rogoff, conservatore moderato. Altri che pure dubitano dell’opportunità di alzare i tassi, come lo storico dell’economia Barry Eichengreen, di mutamenti epocali non ne vedono. Tuttavia è un fatto che sui mercati i tassi di interesse tendono a rimanere bassi, assai più di quanto i manuali accademici teorizzassero. Ed è anche un fatto che in tutti i paesi avanzati, quale più quale meno, le imprese investono poco. Ovvero non si verifica l’effetto che i tassi bassi dovrebbero avere, incentivare l’espansione degli affari.
Giorni fa da questo lato dell’Atlantico uno studio della Banca d’Inghilterra ha dato un robusto appoggio alle tesi di Summers. Nota che negli ultimi 30 anni i tassi di interesse a lungo termine sono scesi nientemeno che di 4 punti e mezzo. Distingue tra le cause l’eccesso di risparmio nel mondo, le ineguaglianze sociali, il calo della natalità; si interroga sul progresso tecnologico.
Il nodo dei salari bassi
Insomma c’è una concentrazione di ricchezze che non trova la via delle attività produttive per incertezza sul futuro: fin troppo capitale, del quale i capitalisti al momento non sanno che fare. Sia in Giappone sia in Gran Bretagna i banchieri centrali si preoccupano dei salari che crescono poco, dopo aver per decenni rimproverato ai sindacati di chiedere troppo.
Quando prendere a prestito non costa quasi nulla, la vecchia saggezza era di alzare i tassi appena comincia la ripresa, per non dare carburante agli speculatori. Invece Paesi che avevano alzato, come Svezia e Israele nel 2011, sono stati costretti alla marcia indietro di fronte a una ricaduta dell’economia.
La via di mezzo
La Federal Reserve tenta ora una via di mezzo, sostenendo che i fenomeni rilevati da Summers sono temporanei, e nel giro di tre anni scompariranno. La crisi ha cambiato il mondo, ma in quale modo? Da una parte si dice: dobbiamo accontentarci di questa crescita modesta e dei salari che restano fermi; se i tassi non aumentano gonfieremo nuove bolle speculative. Dall’altra si ribatte: contentarsi non è possibile, c’è troppa gente che ha smesso di cercare lavoro, troppe speranze deluse; il rischio dell’instabilità va messo in conto.