La Stampa, 17 dicembre 2015
Tags : Congiura delle Polveri • Giacomo I Stuart • Impiccagione • William Shakespeare
Così Shakespeare raccontava la cronaca a teatro
Con una di quelle audaci sovrapposizioni di comico e tragico che avrebbero sconcertato epoche successive più ligie alle presunte esigenze del decoro, subito dopo che Macbeth ha orrendamente assassinato il suo sovrano Shakespeare fa rompere un allucinato silenzio da colpi sonoramente bussati al portone del castello di Inverness, e quindi dal chiassoso arrivo di un portiere ubriaco che si accinge a rispondere. Costui chiacchiera a ruota libera, paragonandosi al portiere dell’inferno che deve accogliere un altro dannato. «Chi sarà questa volta?» dice più o meno. «Toh, un cavillatore che giurava su tutti i piatti della bilancia, che ha commesso tradimenti in nome di Dio...».
La parola per cavillatore, che tornerà più volte nelle farneticazione del portiere, è «equivocator», termine dotto e raro fino al 1606 – l’anno in cui Macbeth fu scritto – ma diventato di uso comune in seguito al clamorosissimo processo degli attentatori della Congiura delle Polveri, scoperta il 5 novembre dell’anno prima. Gentiluomini cattolici che volevano riportare il Paese nelle braccia della Chiesa di Roma avevano progettato un colpo ancora più devastante dell’attentato islamico alle torri gemelle, immagazzinando 36 barili di polvere da sparo nelle cantine del Parlamento col progetto di farli esplodere nel corso di una seduta plenaria. In un colpo solo sarebbero stati eliminati il re, suo figlio Enrico e tutto il governo.
Il complotto fu scoperto in tempo, e i responsabili, processati senza diritto alla difesa agli inizi del 1606. Con loro fu condannato anche il gesuita Henry Garnet, accusato non di complicità ma solo di aver messo mano a un trattatello anonimo di 66 pagine che fu rinvenuto all’Inner Temple, scuola di avvocatura londinese. Il trattatello insegnava la cosiddetta «equivocation», detta anche riserva mentale, ovvero i trucchi con cui i gesuiti spiegavano come mentire sotto giuramento: sovversione imperdonabile in tempi in cui l’affidabilità dei testimoni era fondamentale.
Dopo un lungo silenzio
Per questo reato Garnet fu condannato allo stesso supplizio dei congiurati, ossia a essere prima brevemente impiccato, quindi, tolto dal cappio ancora vivo, lentamente castrato, eviscerato, e finalmente squartato e decapitato. Quando fu sulla forca, alcuni seguaci irriducibili riuscirono tuttavia a tirarlo per i piedi e a farlo morire velocemente.
Il richiamo all’«equivocator» non è certo la sola spia sulla tempestività dei drammi di Shakespeare. 1606 – William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber), il nuovo studio di James Shapiro dopo quello relativo all’anno in cui il Bardo scrisse l’Amleto, ne contiene a dozzine. Il 1606 fu un anno tragico per l’Inghilterra, anche se magico per il Bardo, che dopo un lungo periodo di quasi silenzio – in tre anni aveva scritto solo Misura per misura e Timone d’Atene, questo in collaborazione – licenziòRe Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra(tutti e tre interpretati da Richard Burbage: quale altro primattore al mondo ha mai avuto un’occasione simile?).
Il fatto era che, a differenza di Elisabetta, il nuovo re aveva la passione del teatro. Uno dei suoi primi provvedimenti dopo l’accessione nel 1603 era stato di ufficializzare la compagnia di Shakespeare come King’s Men: e un’antica ditta di Londra conserva ancora la pergamena che le ordina di consegnare a Shakespeare e ai suoi otto compagni quattro iarde e mezza di stoffa rossa perché si facciano le livree con cui comparire a Corte. Ci fu quindi una pressante richiesta di lavori nuovi, e nello scriverli certamente il drammaturgo fu stimolato dall’aria inquieta che circolava.
Gli interessi del nuovo re
Figlio di Maria Stuarda che Elisabetta aveva fatto giustiziare, il re di Scozia chiamato al trono d’Inghilterra tentò subito di unificare, oltre alla corona, i due regni, e per suo ordine nacque la nuova bandiera, lo Union Jack. Shapiro calcola che nella produzione di Shakespeare sotto Elisabetta le parole «English» e «Englishness» capitino 350 volte, contro solo 39 sotto Giacomo, mentre «Britain» compare solo due volte nei drammi elisabettiani contro 29 in quelli successivi. E Lear è un sovrano della Gran Bretagna che si mette nei guai proprio per avere diviso quello che era unito (già nel 1599 Giacomo aveva scritto un trattato contro la divisione dei regni).
Sia qui sia nel successivo Macbeth, ambientato in Scozia e dove figurano antenati dello Stuart – discendente dalla progenie di Banquo, cui le streghe hanno profetizzato il trono – sono parecchi richiami agli interessi del re, studioso di demonologia (dal fondamentale trattato di Samuel Harsnett contro le Egregie Imposture Papiste, 1603, Shakespeare prende molti termini e nomi di diavoli) ed esperto di stregoneria. Malgrado questi omaggi, non necessariamente espliciti, l’anno che Giacomo aveva iniziato con splendidi festeggiamenti continuò con una serie di delusioni.
L’opinione popolare si rivelò violentemente contraria alla vagheggiata unione, che il Parlamento sabotò e finalmente fece fallire. A luglio poi scoppiò la peste – i teatri furono chiusi, come avveniva quanto i morti superavano la trentina settimanale – e il flagello continuò a crescere costringendo la Corte a lasciare Londra, dove tornò assai mogia solo a novembre. Quando i reali poterono concedersi uno svago teatrale per le festività, il 26 dicembre, toccò loro Re Lear; e non sappiamo quanto ne fossero rallegrati. La storia era famosa e tutti sapevano che finiva bene, ma Shakespeare la cambiò, facendo morire sia il sovrano sia sua figlia in modo così crudele che nella seconda metà del secolo, con un nipote di Giacomo sul trono, questa conclusione fu riscritta in una versione edulcorata che poi avrebbe continuato a tenere le scene fino al 1835.