La Stampa, 17 dicembre 2015
Tags : Maria Elena Boschi • Matteo Renzi
Le contraddizioni del garantista Renzi. Ha ancora la forza per proteggere la Boschi?
Scartabellare gli archivi per mettere Matteo Renzi davanti alle sue contraddizioni è un lavoro divertente ma non molto utile. Il ripasso servirà giusto ad animare il dopocena, quando si argomenterà la doppiezza del premier che due anni fa, nel novembre del 2013, trovava inevitabili le dimissioni del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, colpevole di rapporti e telefonate amichevoli con la famiglia Ligresti alle prese coi soliti guai giudiziari. È un problema politico, aveva detto il premier, perché «ha minato l’autorevolezza istituzionale e l’idea di imparzialità». Una sentenza abbastanza generica, buona per tutte le misure, comprese quelle di Maria Elena Boschi che, negli stessi giorni, era andata in televisione a dire non come si sarebbe dovuta comportare Cancellieri, ma come si sarebbe comportata lei, Maria Elena, al posto del guardasigilli: «Mi sarei già dimessa». Pensate se la Boschi di oggi si trovasse davanti la Boschi di allora, con la sua purissima logica: «Non pare ci siano profili di illegittimità nella condotta ma ha dato l’idea profondamente sbagliata di un sistema in cui solo se conosci qualcuno riesci a vedere tutelati i tuoi diritti».
Cancellieri era nel governo di Enrico Letta, ed è rimasta al suo posto, mentre a un paio di ministri del governo Renzi è toccato lasciare. Una è Nunzia Di Girolamo di cui erano circolate intercettazioni telefoniche non sconvolgenti sulla gestione dell’Azienda sanitaria di Benevento, e che oggi rilascia interviste amareggiate a proposito del «doppiopesismo» del presidente del Consiglio. Allora, secondo Renzi, era «una questione di stile». E una «questione di saggezza» aveva suggerito le dimissioni a Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture con figlio vestito di abiti sartoriali e attrezzato di Rolex d’oro da un appaltatore del ministero finito in carcere. «Due pesi e due misure», dice Letta ricordando i toni liquidatori di Renzi per Angelino Alfano dopo il fattaccio di Alma Shalabayeva: «Se sapeva ha mentito, e questo è un piccolo problema; se non sapeva è anche peggio». Le dimissioni, aveva aggiunto, sono una faccenda fra Letta e Alfano, se la vedano loro. Ecco, fosse soltanto una questione di «doppiopesismo» e di «due pesi e due misure» sarebbe davvero poco interessante. Toccherebbe di riscrivere da capo la biografia della Repubblica, prima e seconda, fino all’ultimissimo Renato Brunetta che ha depositato una mozione di sfiducia al governo dopo aver dato la disponibilità di Forza Italia a votare quella dei cinque stelle, sfiducia alla sola Boschi. Costretto a farlo, tenetevi forte, per la rilevanza del «conflitto d’interessi» e nonostante avesse sin lì sostenuto che la sfiducia individuale è «un atto aberrante, non previsto dalla Costituzione». La questione è un’altra: qual è il criterio? Quando ci si dimette e quando no al tempo di Matteo Renzi?
Una discontinuità col passato si era già vista, e questo giornale l’aveva segnalata: in ognuno dei casi in questione, Renzi non aveva accennato alla magistratura, all’avviso di garanzia, alla portata del reato e infatti i partigiani di Lupi trasecolavano: «Ma come? Non è nemmeno indagato...». La politica si è ripresa una sua autonomia, cerca di non subire gli eventi ma di affrontarli e con metri che non sono quelli rigidi delle procure, di cui il palazzo è rimasto prigioniero per lustri, ma quelli esclusivi, elastici e utilitaristici della politica. Era scontato in un leader che qualcosa di Machiavelli conosce, sa che la coerenza e la sincerità sono qualità secondarie, che il principe deve farsi volpe per scansare le trappole e farsi leone per spaventare i lupi (iniziale minuscola), deve cioè esercitare scaltrezza e forza per non soccombere. Renzi si è liberato di Lupi (maiuscolo) e di De Girolamo perché erano ministri tutto sommato laterali, difenderli e trattenerli avrebbe procurato più danni di quanti vantaggi ha procurato mandarli via. Poi ha chiamato il suo gesto virtù, anche se virtù non era. Adesso si innalza a protezione di Boschi, dopo essersi fatto volpe si fa leone: se cade lei, che gestisce le Riforme, cioè l’unica vera ragione sociale di questo governo, cade tutto e si torna al voto. Il criterio ormai è l’atto di forza, che va al di là dei numeri in Parlamento. La domanda non è se Renzi usi due pesi e due misure, ma quanta forza abbia per farlo.