ItaliaOggi, 16 dicembre 2015
A duecento anni dal viaggio di Goethe in Italia
Il tre settembre del 1786, prima dell’alba, alle tre di notte, in diligenza, Johann Wolfgang von Goethe se ne partì per l’Italia senza avvertire gli amici, soprattutto le amiche. E cominciò il turismo. Una battuta inesatta. Lui era un viaggiatore, razza che tra voli low-cost e vacanze all-inclusive si sta per estinguere. Per pubblicare le memorie di viaggio, attese quasi trent’anni. Nel 2016 si celebrano i due secoli del suo Italienische Reise, il Viaggio in Italia, un anniversario che sarà celebrato da noi e da loro. Tra amore e odio, tra comprensione e diffidenza, tra Italia e Germania si ritorna sempre a Goethe.
In realtà, la diligenza del poeta era una sorta di cigolante macchina del tempo: non scendeva in Italia, correva verso l’Arcadia, un paese letterario. In quella fine d’estate, tre anni prima della Rivoluzione francese, non esisteva la Germania, e Garibaldi doveva ancora nascere. Gli equivoci sono inevitabili. Ma 150 anni dopo, quando nel dopoguerra con il primo benessere cominciò sul serio il turismo di massa teutonico, molti dei vacanzieri che giungevano a Rimini o a Riccione avevano sempre il Reise in tasca, un Baedeker che si dimentica di indicare i prezzi di osterie e alberghi. Un turista vuole risparmiare, un viaggiatore vuole essere ingannato, e trovare quel che s’immagina.
Il nostro istituto di cultura a Berlino, guidato dal professore Luigi Reitani, ovviamente, ha al centro degli appuntamenti per il prossimo anno, l’anniversario del viaggio, ma il suo slogan modifica leggermente i versi del celebre sonetto dedicato da Goethe al nostro paese «Kennst du das Land wo auch die Zitronen blühn», conosci la terra dove anche fioriscono i limoni... Nel frattempo siamo diventati qualcosa d’altro. Neanche nel 1786 eravamo l’Arcadia sognata dai letterati tedeschi, o inglesi. Per i rampolli che a spese di papà partivano per il Grand Tour, l’Italia era una sorta di bordello al sole e a buon mercato, come si evince dalle lettere entusiaste agli amici. Un viaggio come un’iniziazione erotica, che, per i più audaci, si fermava a Napoli. Goethe era più pudibondo, anche se certi suoi scontrini delle spese rubricati come conti delle lavanderie, lasciano sorgere qualche sospetto su frequentazioni mercenarie. E più audace, perché giunse fino in Sicilia. La traversata, tra tempeste e pirati saraceni, era un’avventura. Non solo limoni e aranci in fiore.
Il Viaggio è ancor oggi una miniera abusata dai nostri enti del turismo. Con orrore ho letto che a Wolfgang si fa dire «vedi Napoli e poi muori». L’autore del Faust non scriveva canzonette. Quando lo feci notare all’incauta partenopea, mi coprì di insulti: come osavo rovinare il suo entusiasmo poetico con correzioni da pedante? I grilli parlanti sono poco amati. Ma scrisse sul serio che Monte Pellegrino, che domina la mia Palermo, è «il più bel promontorio al mondo». Non è che ne avesse ammirati molti, per la verità. Che importa? Per far arrabbiare i miei colleghi toscani, ricordo sempre che a Firenze il viaggiatore si fermò un paio d’ore, per correre in fretta verso il sud dei suoi studi classici. E rischiò persino di rimanere vittima di un incidente stradale, superata Albano, quando per poco la diligenza non si schiantò contro un carro di contadini. Sempre insidiose strade e Autobahnen in Arcadia.
A lui, come a Schinkel o Winkelmann dobbiamo l’invenzione della Grecia, dove mai arrivarono. Bianca e pura, come non fu mai. Goethe giunto a Segesta, dove sorge il tempio meglio conservato del Mediterraneo, rimase turbato: scoprì un’Ellade dura e orientale, quella autentica. Ma l’equivoco sopravvive ancor oggi, in quelli che piangono per salvare Atene dall’euro. Nello scrivere decenni dopo, gli appunti e la memoria a volte lo tradiscono, come dimostra Leonardo Sciascia, lui pure grillo parlante: dalla finestra della sua pensione a Palermo, non poteva scorgere Monte Pellegrino. Una licenza poetica. Però per concludere, il suo viaggio rimane al centro, o nel subconscio, dei nostri rapporti. Noi, nel bene e nel male, non siamo come loro ci vogliono. Loro non sono come noi temiamo. Se gli eventi previsti per bicentenario serviranno a chiarire quell’ «auch» sarebbe positivo. E se ne potrebbe approfittare per scoprire che «anche» la Germania non è più quella di Tacito, terra di barbari dominati dalla virago Angela, nome ingannevole. Ma ci credo poco. Lo ricorda lui, Herr Wolfgang, che noi siculi siamo scettici.