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 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

Visita allo stabilimento di Amazon di Castel San Giovanni: in 86mila metri quadrati 830 persone a ritmo di musica rock provano a realizzare il sogno americano

L’aspetto è quello di un emporio di paese. Merce gettata alla come capita su scaffali privi di glamour: pentole e smalti per unghie, scarpe e macina caffè, cellulari, catene da neve, gelatiere, biancheria, giocattoli, libri. Ma questo emporio è grande come 12 campi da calcio, le merci esposte su chilometri di scaffalature sono milioni, e vengono consegnate ai clienti al ritmo di una ogni 4 secondi. Benvenuti all’everything store, il negozio di tutto, Amazon. La “bottega’’ italiana è a Castel San Giovanni, periferia di Piacenza, mezz’ora da Milano. In 86.000 metri quadri lavorano 830 persone, età media 31 anni, ma a colpo d’occhio sembra di entrare in un liceo: sono tutti ragazzini. Giovani e molto occupati: smistare merci otto ore al giorno richiede concentrazione. E solo perché sono ragazzi riescono a farlo, malgrado un rock sparato dagli altoparlanti. «Scelta loro. Sa, sono giovani», quasi si scusa Tareq Rajjal, ad di Amazon Logistica Italia: giordano, 50enne, la guida nel meraviglioso mondo di Jeff Bezos.
Da giugno Amazon ha avviato l’operazione porte aperte, una volta al mese si può visitare lo stabilimento. Vogliono mostrare come lavorano: l’onta da cancellare è un articolo del New York Times che descrive l’azienda come una Cayenna dai metodi disumani. Jay Carney, vicepresidente del gruppo, ha replicato accusando il NYT di aver dato voce a dipendenti estromessi per vari reati e di non aver verificato i fatti: «Se lo avessero fatto, la loro storia sarebbe stata molto meno sensazionale. Non avrebbe meritato la prima pagina, ma avrebbe detto la verità».
L’attenzione al politicamente corretto, alla sicurezza (qui quasi ossessiva) alla privacy, sono d’altra parte tipicamente americane. Meno scontata è la decisione del gruppo di mettersi in regola col fisco: unico, per ora, tra i giganti del Web. Anticipando le nuove regole Ocse sulla fiscalità delle multinazionali, approvate dall’ultimo G20 e destinate a entrare in vigore tra breve, già a maggio Amazon ha aperto una partita Iva nel nostro paese, rassegnandosi a pagare le tasse come un qualunque negozio italiano. Chiaro: con 86 mila metri quadrati di magazzino e 1.300 dipendenti, era difficile sostenere di non avere stabile organizzazione in Italia. Ma tant’è: Amazon si è adeguata, gli altri – da Apple a Facebook e via dicendo – ancora no.
La pace fiscale era però necessaria anche per un altro motivo. Sull’Italia Amazon punta parecchio, solo a Piacenza il gruppo ha investito negli ultimi due anni oltre 70 milioni di euro. Un nuovo magazzino è stato appena aperto a Milano per il servizio Prime Now, la consegna in un’ora. Cresciuta in modo esponenziale anche l’occupazione: dai 65 dipendenti del 2011 a 1.300, la maggior parte nel centro logistico, il resto tra Milano e il call center di Cagliari. Tutti assunti a tempo indeterminato ben prima del Jobs Act, stipendio d’ingresso 1.450 euro lordi, mensa gratuita, chance di carriera all’americana: oggi sgobbi, tra due anni puoi essere team leader con 50 persone sotto di te, in futuro chissà.
L’organizzazione del lavoro è definita da quello che qui chiamano Il Sistema: il misterioso algoritmo che governa ciò che altrimenti sarebbe Il Caos. E tuttavia, anche Il Sistema deve per forza coordinarsi con menti e corpi umani: la merce dagli scaffali non si muove da sola, non ancora. Le funzioni dei dipendenti sono solo tre: Stower, Picker, Packer. Il primo registra la merce in entrata, il secondo la mobilita sugli scaffali, il terzo la impacchetta e invia ai nastri trasportatori, dai quali cade direttamente nei contenitori destinati ai corrieri. Semplice e assolutamente efficace, consente di gestire in una sola giornata quasi 400 mila ordini.
Non esiste divisione merceologica, solo quella più elementare: oggetti piccoli e grandi. Ma il casino sugli scaffali è in realtà apparente, perché il Sistema sa dove trovare ogni cosa: fosse pure uno spillo. Si lavora con Pc e codici a barre, tutto è automatizzato, perfino la scelta dell’imballaggio è determinata dal Sistema. Che sa, anche, quanto deve pesare il pacco di ogni cliente: qualche grammo in più o in meno significa errore, ed è subito segnalato.
L’etichettatura del destinatario viene applicata in automatico, e solo dopo la chiusura del pacco: così la privacy è salva, e se avete ordinato un completino da bondage non lo saprà nessuno. Solo il Sistema sa. Il capannone è luminoso, pulito, silenzioso (zona rock a parte), climatizzato estate e inverno; e non è banale, data l’enorme cubatura. La forza lavoro è un mix interessante: per oltre un terzo femminile, molte etnie diverse, moltissimi ragazzi al primo impiego, ma anche gente che ha perso un precedente lavoro, o ex negozianti costretti dalla crisi a chiudere.
Il profilo preferito è quello del laureato: non che serva il 110 e lode per lavorare qui, ma «sono più intelligenti, più problem solving». I rapporti col sindacato sono buoni, ma riguardano solo l’applicazione del contratto. In azienda la rappresentanza dei lavoratori manca. E del resto sono tutti giovanissimi, del sindacato ne sanno poco, o ne fanno a meno. A fine turno gli amazonians-ragazzi sciamano sotto il motto della casa che campeggia all’ingresso: «Work hard. Have fun. Make history». Lavora duro, divertiti, fai la storia. Resta la sensazione che a tutti loro toccherà la prima parte, a qualcuno forse la seconda, a nessuno l’ultima. Però qui siamo nel sogno americano, chissà.