Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

I giornali americani bocciano il Jobs Act di Renzi

Quando i giornali americani si occupano delle riforme made in Renzi è per demolirle. E dire che il premier, a differenza del più illustre fra i suoi predecessori a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi, vantava un buon rapporto con i media Usa. Ammesso che sia mai esistito, questo feeling si è interrotto. Anche se l’ex sindaco di Firenze mostra di non accorgersene. Soltanto domenica scorsa, parlando alla Leopolda, non aveva lesinato i toni trionfalistici: «Gli americani quando pensano all’Italia dicono wow. Gli italiani dicono mah. Fra il wow e il mah passa la differenza fra il nostro approccio e quello di guardare in positivo e riconoscere il merito». Il suo, naturalmente.
In realtà a leggere quel che sta uscendo sulle maggiori testate angloamericane verrebbe da pensare, semmai, a un provocatorio: «wow, che pena» le riforme dell’Italia. Questo è il senso, ad esempio, del pezzo di analisi curato da Catherine Evans in collaborazione con la Reuters, uscito l’altroieri sul New York Times con il titolo «Renzi’s Jobs Act Isn’t Getting Italy to Work»; il Jobs Act di Renzi non significa che l’Italia lavora. Il giudizio della Evans è a dir poco impietoso: «Dopo la riforma introdotta gradualmente tra gennaio e marzo, i posti di lavoro stabili che erano l’obiettivo principale sono stagnanti, mentre quelli temporanei che il Jobs Act voleva contrastare, continuano a crescere». Di più: «Il modesto aumento dell’occupazione complessiva non si deve a posti aggiuntivi creati per i giovani, ma alle riforme delle pensioni introdotte dai governi precedenti, che hanno innalzato l’età pensionabile». In questo caso potrebbe starci bene un «wow, che delusione».
Ancora più caustico era stato l’economista tedesco Wolfgang Munchau che in un articolo uscito sul Financial Times il 20 novembre scorso aveva letteralmente demolito il Matteo nazionale e uno dei superconsulenti chiamati a Palazzo Chigi per rilanciare il Paese, Yoram Gutgeld. Il pezzo, titolato «La ripresa italiana non è quel che sembra», faceva polpette della riformite renziana, arrivando a consigliare una terapia shock: «Se l’Italia non esce con forza dalla recessione, è difficile capire come possa rimanere nell’Eurozona. A un certo punto potrebbe essere un indiscusso interesse del Paese uscire dalla moneta unica e svalutare».
E Munchau, all’epoca del pezzo, non poteva ancora conoscere gli ultimi dati macro sullo Stivale che descrivono una situazione di difficoltà, sideralmente lontana dall’ottimismo di maniera sfoggiato dal premier alla Leopolda. I conti pubblici peggiorano: il debito è risalito a quota 2.211 miliardi di euro, appena 7 miliardi sotto il record storico di maggio. A impennarsi è quello delle amministrazioni centrali, che a ottobre hanno prodotto un rosso aggiuntivo di 20,6 miliardi, mentre quelle locali hanno risparmiato 800 milioni. Con buona pace di chi vuole smontare quel po’ di federalismo che resiste. Tutto ciò mentre le entrate tributarie, nel periodo che va da gennaio a ottobre, sono salite a 318,8 miliardi, 11 in più rispetto ai primi dieci mesi 2014. L’Erario incamera più soldi ma non bastano a coprire i buchi.
Senza contare gli ultimi numeri di lunedì sul carovita. L’inflazione prevista per il 2015 è ferma allo 0,1%. Nulla. E ben 11 grandi città si trovano in deflazione: a Bologna, Padova, Palermo, Catania, Perugia, Cagliari, Bari, Verona, Venezia, Modena e Aosta i prezzi anziché aumentare calano. Se questa è la ripresa prodotta dalle riforme del governo, c’è da dire: wow, che bufale!