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 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

Genova dedica una mostra a Lisetta Carmi, fotografa che catturò l’anima degli emarginati (e di Ezra Pound)

«Ero iscritta al Pci da un paio d’anni e fui invitata alle Frattocchie … dove si tenevano corsi di aggiornamento per le giovani comuniste. Arrivammo in dodici. Ci riunirono in un piccolo refettorio. Poi giunse un’anziana compagna che molto severamente ci ammonì, ricordandoci come ci saremmo dovute comportare durante il nostro soggiorno. Alla fine a ciascuna di noi fu dato un libro di Stalin sulla donna… Trascorsi lì sei giorni. I più lunghi e noiosi della mia vita».
È Lisetta Carmi a raccontare: la conclusione, inevitabile, fu l’uscita dal partito, senza traumi; ma ancora oggi, ultranovantenne, Lisetta si dichiara comunista: una delle tante identità di una personalità molteplice, di questa donna che ha attraversato stagioni diverse, esplicando la sua creatività nelle più varie direzioni. Per scoprire la sua biografia ora la sua città natale, Genova, le dedica una bellissima mostra fotografica, curata da Giovanni Battista Martini, al Palazzo Ducale, arricchita dal sontuoso catalogo (a cura di Giovanna Chiti), e dal prezioso docufilm di Daniele Segre (si può acquistare sul sito www.danielesegre.it). Sono esposte le foto scattate da Lisetta, ma la fotografia è stata soltanto una delle sue tante passioni, o delle vie alla conoscenza e alla comprensione del mondo, della commedia (o tragedia) umana: la musica, prima, innanzi tutto, come pianista (giunta a livelli internazionali) e come insegnante; poi l’illuminazione grazie a un guru indiano, Babaji, che, come lei non si stanca di ripetere, le ha cambiato la vita. Era l’anno 1976, e su indicazione di Babaji Lisetta apre un ashram a Cisternino, nel Salento, che inizialmente accolse sbandati e tossici, per poi diventare nel corso degli anni, un luogo di ritrovo per migliaia di persone, desiderose di condividere, anche soltanto per un momento, l’esperienza dell’«illuminazione».
Lisetta nasce dunque a Genova nel 1924, da famiglia borghese, ebraica, laica: l’ebraismo, per lei, è essenzialmente la memoria della persecuzione di un popolo, che la induce a «stare sempre dalla parte di chi soffre, di chi è schiacciato dal potere, di chi non ha il diritto di parlare», dice lei stessa.
Scopre la fotografia quarantenne, dopo la musica, e comincia con l’esplorazione della città natale, i luoghi degli esclusi, i morti (le suggestive immagini del cimitero di Staglieno) e i vivi (portuali, manovali, facchini, prostitute). Li va a cercare anche nelle favelas venezuelane, nei mercati messicani, nei campi profughi palestinesi, tra i pastori di Orgosolo; o ancora tra coloro che la società respinge, vergognandosene: i travestiti, di cui, nella Genova degli anni Sessanta-Settanta si fa amica, riuscendo a riprenderli nella loro intimità, di interni squallidi ma addobbati con immagini alle pareti di divi dello sport o del cinema, e contemporaneamente di Gesù e Madonne. Li studia, Lisetta, ma non come un entomologo fa con i coleotteri, piuttosto con sguardo che indaga amorevolmente: persone da conoscere, mondi da penetrare. È la testa che domina l’obiettivo della Leica; non è la fotografia il fine, piuttosto un mezzo, per raggiungere sempre il medesimo scopo: «Ho fotografato per capire», è il leitmotiv di Lisetta, che non a caso è stato scelto quale motto della mostra.
Sbaglierebbe in effetti chi cercasse qui un equivalente di un Brassaï, il fotografo parigino di origine transilvana, in mostra nel medesimo Palazzo Ducale. Brassaï è un professionista, un artista dell’obiettivo, che immortala con immagini stupende la sua Parigi (la mostra è intitolata Pour l’amour de Paris, ed è un omaggio alla Ville Lumière casualmente inaugurato pochi giorni prima degli attentati del 13 novembre). Lisetta è quasi una fotografa per caso, che usa l’obiettivo e il grandangolo semplicemente come occhi: guarda, va a fondo, coglie l’anima di cose e persone.
Eccezionale la piccola, illuminante sequenza dedicata a Ezra Pound, undici scatti rubati al poeta, allora (metà Anni Sessanta) ritirato in una bicocca sulle alture di Rapallo. Lisetta vi giunge accompagnata da un amico e da un vecchio contadino scalzo che conosce il posto. Bussano all’uscio, ripetutamente. Solo quando stanno per andarsene la porta si dischiude lentamente: Pound, in vestaglia, pantofole e pigiama esce. Non dice una parola. Guarda il terzetto, ignorandolo: «Sembra un essere che vive in un mondo chiuso, un mondo in cui noi non possiamo entrare». Lei scatta, temendo le ire di quell’uomo alto, magro, allampanato, dalla testa scarmigliata. Invece nulla. Il poeta continua a ignorare lei e gli altri, finché dopo un paio di minuti che paiono eterni, si volta indietro, rientra, e richiude lentamente alle sue spalle la porta. In quegli undici scatti non tanto la macchina quanto l’occhio – forse «il terzo occhio», della cultura induista – di chi la manovra riesce a cogliere in tutta la sua intensità l’anima tormentata di un genio solitario, che le sconfitte che la storia gli ha inflitto hanno trasformato in un lugubre misantropo.