La Stampa, 16 dicembre 2015
Un ragazzo accoltella madre e padre: «Mi avevano fatto arrabbiare. Li odiavo»
Al poliziotto che abita al piano di sotto apre la porta con ancora il coltello in mano. «Mi avevano fatto arrabbiare. Li odiavo», confessa subito di avere ucciso i genitori, Davide Mugnos, 26 anni, una vita disturbata fatta di alcol droga e psicofarmaci. Cosa sia successo davvero quando non erano ancora le 4 del mattino al settimo piano di questo palazzone beige con i babbinatale che penzolano dai balconi lo sa nessuno. Via Edison 666 a Sesto San Giovanni è un posto tranquillo. Quattro palazzoni che non sono grattacieli ma pomposamente vengono definiti torri. Un po’ di verde spelacchiato. Lo stradone che attraversa la zona industriale prima della nebbia di Milano. Sul cancello le telecamere di sicurezza.
L’inferno
Ma è dietro la porta di legno chiaro con i sigilli della polizia e le riproduzioni dozzinali di un paio di Picasso al settimo piano che si scatena l’inferno. Il poliziotto al piano di sotto sente lo stereo con la musica a palla e poi gridare. Quando sale e suona Davide Mugnos è in pigiama pronto ad andare a letto come se nulla fosse. In salone sua madre Francesca Re, 60 anni, è già morta a terra colpita da almeno 20 coltellate al collo e in pancia. In camera suo padre Giuseppe, 62 anni, non ha fatto nemmeno tempo a difendersi. Lo trovano accasciato sulla sedia a rotelle dove era finito da anni per quel diabete arrivato dopo una cirrosi epatica che gli aveva portato via tutte e due le gambe. Ucciso pure lui da suo figlio, rientrato solo da pochi giorni da una comunità terapeutica vicino a Frosinone.
«Mia madre mi voleva rimandare in comunità. Era cattiva. La odiavo. Voleva uccidermi», ripete a verbale in commissariato questo ragazzone in cura da tempo, depresso e lo sapevano tutti, pericoloso e lo temeva più di uno tra gli abitanti di questo quartiere circondato da un cortile dove ogni tanto Davide portava a passeggio il cane. «Era stato via qualche settimana, sapevamo che non stava bene. Ma da qui a pensare che potesse fare quello che ha fatto...», allarga le braccia il custode nel gabbiotto dove i vicini si affacciano per avere notizie e le telecamere fanno la fila per sapere com’è andata. Alle 11 e mezza il furgone dell’obitorio porta via i cadaveri. Poco dopo arriva di corsa una parente,che corre e quasi urla: «Lo sapevo che sarebbe successo...».
A sentire chi abita qui, sembra che lo sapessero tutti che l’appartamento 337 della torre 3 era il buco nero del quartiere. Non abbastanza grande però, da inghiottire questa famiglia consumata da droga e psicofarmaci e violenza. «Era depresso. Di sicuro non è stato curato abbastanza», dice la vicina di pianerottolo, dietro la porta che rimane chiusa. «Una famiglia di persone per bene. Ma lui era molto aggressivo», assicura una signora in cortile mentre si stringe nel piumone e si capisce che non è solo per il freddo. «Con me è sempre stato gentile. Io però non l’ho mai preso troppo di petto. Quando vedevo che era troppo agitato lo salutavo e me ne andavo...», racconta una ragazza con i capelli lunghi, appena tornata dall’ufficio per il pranzo in tempo per i telegiornali che in 2 minuti cercano di spiegare quello che potrebbe riempire un manuale di psichiatria intero o la solita pagina di cronaca nerissima.
Gli ingredienti per una ordinaria storia di violenza metropolitana ci sono tutti. Giuseppe Mugnos aveva una piccola impresa di pulizie e la bottiglia come passione. La cirrosi epatica era arrivata quasi subito. Poi il diabete che gli aveva portato via le gambe e la vita. La bottiglia sembrava l’unica consolazione. La pensione sociale non bastava per tirare avanti.
Le botte alla moglie che non lo aveva mai denunciato erano il pane quotidiano. Davide, suo figlio, aveva scoperto l’alcol a 12 anni. Poi la droga. Zero lavoro e una depressione mal curata hanno fatto il resto. Sua madre che voleva farlo ritornare in comunità perché lo vedeva troppo aggressivo è stata la prima ad essere uccisa.