la Repubblica, 16 dicembre 2015
Ritratto di Yao Ming, il primo gigante cinese che giocò nell’Nba
«Ancora tutti che mi chiedono: quanto sei alto? Ma dico, non potete documentarvi prima. E poi la battuta: che aria si respira lassù? Basta, sono secoli che la sento». Yao Ming, soprannominato «The Great Wall», La Grande Muraglia, nel 2002 primo gigante d’esportazione cinese, 2,29 metri di altezza, otto anni nell’Nba con gli Houston Rockets, l’addio al basket nel 2011, spiega cosa bisogna non chiedere ad una grande star dello sport. Alla prima edizione dello Sport Media Pearl Awards (organizzato da Abu Dhabi Media e Aips) stampa mondiale e campioni si confrontano su come fare le interviste. E su come raccontare in tempi moderni le varie facce dello sport. Sempre Yao: «Da Shanghai a Houston è stato un canestro lunghissimo. Mi sono trovato in un altro mondo: lingua e cultura erano diversi. In America lo sport professionistico ti organizza le partite, ma ti lascia solo nella vita privata, rispetta la tua libertà, l’allenatore ti dà consigli in campo, non per la quotidianità. Ma io soffrivo proprio di questo, i miei genitori erano lontani, non avevo nessuno che mi dicesse come dovevo comportarmi. L’avversario più duro? Shaquille O’Neal, 2,16 di montagna, anche se non lo dovrei dire io, ognuno era l’incubo dell’altro. Il momento più critico per le interviste? Il dopo- partita. Sei ancora adrenalinico: o ti frega l’euforia del successo o la rabbia della sconfitta. Dici comunque cose emotive, di cui ti penti quando è troppo tardi».Jonathan Edwards, 49 anni, primatista mondiale del triplo dal ’95 con 18,29 metri, ora commentatore sportivo per la Bbc: «Non credete ai campioni quando dicono che non leggono i giornali. Non è vero. La stampa è lo specchio di uno sportivo, un grande record ha bisogno di un grande racconto, ma bisogna appunto che l’atleta sia capace di esprimersi. Prima, quando ero dall’altra parte, non me ne rendevo conto. Adesso davanti a campioni che rispondono a monosillabi, mi rendo conto quanto sia difficile. E quanto il fatto che un campione possa essere paparazzato mentre fa la spesa al supermercato abbia cambiato la privacy».Donna De Varona, americana, ex nuotatrice, due ori olimpici ai Giochi del ’64, primatista mondiale dei 400 misti a 13 anni, più di 18 record in carriera, 17 olimpiadi da giornalista. «La cosa di cui ho sofferto di più con la stampa è che a Tokyo ‘64 erano i giornalisti a gestire il mio profilo, voglio dire che loro davano già per scontato che io avrei vinto. Avevo 17 anni, e una cosa così ti ammazza, quando vedi che altri disegnano la tua vita. Ma con la rete Abc ho stabilito buoni rapporti: venivano a riprendermi sott’acqua, ho chiesto solo che evitassero le bolle con i respiratori perché davano fastidio al mio nuoto. È la pressione che uccide il campione, le troppe aspettative. Non si possono fare cose stratosferiche e parlare ogni giorno alla stampa. Ma a Carl Lewis e a Michael Phelps ho anche spiegato che un’intervista è come fare i compiti a scuola. Devi prepararti. E una volta che hai vinto devi essere generoso. Perché è il record che ti fa entrare nella leggenda, ma è una buona storia che ti ci fa restare».