la Repubblica, 16 dicembre 2015
Le donne e la letteratura. Un’intervista via mail a Elena Ferrante
Salutata dalla critica statunitense come la nuova Elsa Morante e acclamata come la migliore scrittrice italiana della sua generazione, Elena Ferrante mantiene il segreto sulla sua identità dal 1992, quando pubblicò “L’amore molesto”, il suo primo romanzo. La scrittrice ha accettato di rispondere a una serie di domande per posta elettronica. Il suo agente ci ha avvertiti che le domande non dovranno affrontare il tema del suo anonimato, e ovviamente non ci sarà possibilità di replica alle sue risposte.
La popolarità dei romanzi della serie “L’amica geniale” è cresciuta via via che li scriveva e quando è uscito “Storia della bambina perduta” la saga si è trasformata in fenomeno letterario. La sua scrittura è stata influenzata da tutto questo? Legge le recensioni e le critiche delle sue opere?
«Di solito leggo attentamente tutto quello che viene scritto sui miei romanzi, ma solo quando ho l’impressione che il libro si sia distanziato a sufficienza. In questo caso non è stato possibile.
L’amica geniale (edito da e/o, ndt) per me è un unico romanzo molto lungo, molto compatto. Ma il fatto che sia stato pubblicato in quattro volumi, uno all’anno, ha comportato che mentre ero sul punto di completare la storia c’erano già recensioni e lettere dei lettori. Si tratta di un’esperienza su cui devo ancora riflettere».
Fino a che punto si identifica con le difficoltà che il suo personaggio, Lena, affronta come scrittrice?
«Ho sempre scritto moltissimo. Concepisco la scrittura come un’arte che necessita di una pratica continua. Esercitarmi per migliorare è una cosa che non mi angustia. Invece continua ad angustiarmi pubblicare. Quando decido di pubblicare, lo faccio sempre fra mille incertezze, e solo quando credo che la verità si impone nel racconto. Riconosco la verità letteraria. Se arriva, lo fa quando ho esaurito tutte le mie risorse di scrittura e ormai ho smesso di aspettarla».
Le donne sono più critiche con il suo lavoro degli uomini? Sono più lucide e severe?
«Non lo so. Ma credo che se una scrittrice vuole rendere al massimo, deve imporsi come regola una certa insoddisfazione. Dobbiamo confrontarci con dei giganti. La tradizione letteraria maschile è millenaria, ricchissima di opere straordinarie, e ha una sua forma specifica di definire tutte le possibilità. Chi vuole scrivere deve conoscere a fondo questa tradizione e imparare a ridefinirla, forzandola a seconda delle sue necessità. Come donne, la battaglia contro la materia grezza della nostra esperienza esige innanzitutto capacità. Oltre a questo, dobbiamo combattere l’apprensione e cercare una genealogia letteraria nostra con sfrontatezza, perfino con superbia».
Le protagoniste dei suoi libri sono sempre donne scrittrici. Perché? Anche la maternità è uno dei suoi temi ricorrenti.
«Le donne scrivono molto, e non tanto per mestiere quanto per necessità. Ricorrono alla scrittura soprattutto nei momenti di crisi, lo fanno per spiegarsi a se stesse. Ci sono molte cose di noi che non sono state raccontate fino in fondo, o che semplicemente non sono state raccontate, e finiamo per scoprirlo quando la vita di ogni giorno si offusca e sentiamo la necessità di mettere ordine. La maternità mi sembra appunto una di queste esperienze, esclusivamente nostre, la cui verità dev’essere ancora esplorata».
Quando Lena ricorda le chiacchierate e le letture in pubblico, dice che ricorreva a storie che non le appartenevano. La narrativa si porta sempre dietro un sentimento di colpa?
«Senza alcun dubbio. Scrivere – e non solo narrativa – è sempre un’appropriazione indebita. La nostra singolarità di autori è una piccola nota al margine. Tutto il resto lo prendiamo da quelli che hanno scritto prima di noi, dalle vite e dai sentimenti degli altri. Senza la minima autorizzazione».
Quali sono le scrittrici che più ammira? E i personaggi femminili che l’hanno conquistata?
«L’elenco sarebbe interminabile, preferisco risparmiarglielo. Voglio però sottolineare che nel corso del Ventesimo secolo la tradizione delle donne scrittrici si è straordinariamente rafforzata, e non solo in Occidente. Credo che la mia generazione sia la prima ad aver smesso di pensare che per scrivere grandi libri bisogna essere un uomo. Oggi possiamo pensare con serenità che è possibile uscire dal gineceo letterario in cui si tende a incasellarci, e che possiamo accettare la comparazione».
L’amicizia fra donne è un tema che è stata trattato pochissimo in letteratura. Perché?
«L’amicizia maschile conta su una lunga tradizione letteraria e un codice di comportamento molto elaborato. L’amicizia femminile invece deve affidarsi a una mappa approssimativa, che solo da poco comincia a precisarsi. C’è il rischio che la scorciatoia del luogo comune si imponga sulla fatica di altri percorsi più impervi».
Lena parla del suo allontanamento dal femminismo. Qual è la sua posizione su questo tema?
«Senza il femminismo starei ancora come stavo quando ero bambina: gravata da una cultura e sottocultura maschile che accettavo come pensiero proprio e libero. Il femminismo mi ha aiutato a crescere. Anche se oggi vedo che le nuove generazioni se ne prendono gioco. Non sanno che basta pochissimo per tornare indietro. Le nostre conquiste sono molto recenti, e dunque fragili. Tutte le donne che ho narrato nei miei libri lo sanno bene».
C’è un’eco di destino fatale e di tragedia greca nei suoi libri. Quanto hanno influito sulla sua formazione le opere classiche?
«Ho studiato lettere classiche e da giovane ho tradotto molto per piacere, sia dal greco sia dal latino. Volevo imparare a scrivere e mi sembrava un esercizio perfetto. Dopo non avevo più abbastanza tempo e smisi. Lei dice che si nota questa formazione nei miei libri e le credo volentieri, ma ho sempre pensato che le mie donne, più che intrappolate nel destino erano rinchiuse in compartimenti storico-culturali».
Sta lavorando a un nuovo libro?
«Sì, è raro che trascorra lunghi periodi senza scrivere. Terminare un libro, però, non è una cosa che mi succede tanto spesso. E quando succede, pubblicare non mi entusiasma. Scrivere mi mette di buon umore, pubblicare no».