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 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

Refat Dakka, uno dei profughi siriani che ce l’ha fatta

Che fine ha fatto Refat Dakka? Sta ascoltando un rapper americano in cuffia, mentre attraversa il celebre mercato di Natale in Karoline Strasse. In quattro mesi ha già imparato un discreto tedesco. «La prima frase è stata “hast du ein feuer“», dice con un sorriso timido e sfrontato al tempo stesso. «Hai da accendere?».
Refat Dakka ha appena compiuto 17 anni. È bello ritrovarlo qui. Perché l’ultima volta l’avevamo incontrato sull’isola di Lesbo con addosso una maglietta bucata e nessun soldo in tasca. «La mia roba è finita in fondo al mare», diceva sorridendo per scusarsi del suo look non proprio alla moda. Era partito da solo da Idlib, Siria. Aveva tentato sette volte di arrivare in Grecia dalle coste della Turchia, scampando a un naufragio. Era stato picchiato, tenuto in carcere, costretto a bere l’acqua del water. Ma nel disastro dell’accoglienza europea – l’8 settembre a Lesbo c’erano 22 mila profughi accampati, 5 membri dell’Unhcr e 2 macchine fotocopiatrici per sbrigare le pratiche di tutti – Rafat Dakka sorrideva. Sorride ancora. A maggior ragione adesso che vive in Germania, proprio il posto che sognava di raggiungere. «Il mio viaggio dalla Grecia è andato benissimo. È durato dieci giorni. Mi sono fermato soltanto a Vienna. Poi sono salito su un treno e sono sceso alla stazione centrale di Norimberga. Cercavo un poliziotto ma non lo trovavo. Fino a quando ne ho visto uno di guardia vicino al McDonald’s. Quasi si è spaventato, vedendo che gli andavo incontro. Allora gli ho detto: «Mi scusi, mi chiamo Refat Dakka, sono scappato dalla guerra per venire a rifugiarmi qui. Mi ha portato in caserma, ha misurato altezza e peso, ed è lì che ho lasciato per la prima volta le impronte digitali».
«Prodotti della guerra»
Fa freddo, ma non troppo. Le strade sono piene di gente. Ai chioschi vendono würstel e vino bollente speziato. Un giamaicano suona No woman no cry davanti alle vetrine del centro commerciale Kaufhof. La casa comunale di Refat Dakka è nel centro storico, fra un cinema e un pub irlandese. Al primo piano abitano settanta profughi minorenni. «Questo è il mio secondo indirizzo tedesco», dice Refat accendendosi una sigaretta di tabacco rollato. «Prima sono stato per un mese nel campo di Gostenhof. Eravamo tantissimi, sessanta nella stessa camerata. Ci trattavano in maniera dura. Mi hanno fatto diversi test psicologici. Ti accorgevi della loro preoccupazione. Perché noi siamo un prodotto della guerra. Controllavano le nostre reazioni per vedere se possiamo fare parte di questa società. Ed è lì, dopo pochi giorni, che ho capito come funziona la Germania». Bravo Refat, come funziona? «Se non sai il tedesco, non vai da nessuna parte. La lingua è la barriera più grande. Non è che i tedeschi non sappiamo parlare inglese, molti lo conoscono bene. Ma ci tengono proprio alla loro lingua. Se non parli come loro, significa che non li rispetti». Ed è con questa convinzione e un vocabolario nuovo di zecca che Refat Dakka è arrivato al suo secondo indirizzo di Norimberga.
La Società per la Lingua Tedesca ha appena definito «flüchtlinge», il termine che definisce tutti i migranti, la parola dell’anno. Più di un milione di persone hanno già fatto domanda di asilo politico in Germania nel 2015. La maggior parte, sono siriani arrivati risalendo la rotta balcanica: Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria. Uno di loro è il profugo Refat Dakka.
«In questa casa siamo in 80 – dice – tutti minorenni. Io divido la camera con tre ragazzi di Damasco. Abbiamo una Playstation 3, il calciobalilla, una biblioteca e una grande cucina per fare colazione. Ognuno può servirsi dal frigo quanto vuole. Le regole sono: vietato saltare le lezioni di tedesco e rientrare dopo le 10 di sera».
Ogni ragazzino fa riferimento a un tutor. Gli incontri sono giornalieri. L’educatore di Refat Dakka sta cercando di trovargli la prossima sistemazione: «Andrò in un appartamento con altri tre profughi, forse vicino a Monaco di Baviera. Sarà bello. Avrò più indipendenza. Qui è come essere a scuola dal mattino alla sera». Studiano per diventare cittadini tedeschi. Ogni settimana, Refat riceve 9 euro e 30 centesimi per le spese personali. Gira con in tasca un documento da «richiedente asilo politico», ma è in attesa della residenza. «Può passare un mese, come un anno», dice. Questo tempo cambierà la sua vita. «Se mi daranno la residenza in Germania prima del mio diciottesimo compleanno, potrò chiedere il ricongiungimento famigliare. Mio padre si chiama Mahmoud, è un maestro di arti marziali. Quello che mi ha insegnato è: la forza non c’entra niente con l’arroganza. Mia madre invece si chiama Manal, adesso è felice, ma ha avuto tanta paura per me. Mamma e papà vivono a venti chilometri da Damasco, in una casa senza finestre. I vetri sono tutti esplosi per i bombardamenti. Quando riescono a trovare il collegamento, ci sentiamo su Skype. Me lo ripetono sempre: “Refat, tu sei la nostra speranza“».
Diffidenza e ammirazione
Refat Dakka deve aver un talento naturale per le lingue. Parla un inglese perfetto. Lo ha imparato guardando film americani, storie di karate e breakdance. «La mia fortuna è che le parole straniere mi restano in testa. Ero piccolo quando è scoppiata la guerra, avevo 13 anni. Ho capito che dovevo imparare l’inglese per scappare». Ora che è un po’ meno piccolo, l’hanno chiamato come interprete per tutti gli altri siriani che stanno arrivando al campo di Gostenhof. «La Germania mi piace – dice – all’inizio sono un po’ diffidenti, ti studiano. Ma poi, quando conoscono la tua storia, si commuovono. Sono ammirati. Non ho incontrato razzismo». Alle quattro di pomeriggio davanti alla casa di Refat Dakka succede un fatto strano. Arriva un’auto della polizia municipale e porta via un ragazzino di 14 anni. «È mio amico – dice Refat – ma non vuole andare a scuola. Ha saltato tre lezioni. Ora lo stanno portando a incontrare gli psicologi». L’auto riparte a sirene spente nella zona pedonale, con un ragazzino seduto dietro.
Il primo Natale di pace
Cosa pensi di Isis? «Tutto il peggio possibile. I terroristi si mettono la maschera dell’Islam. Vogliono spaccare il mondo arabo. Vogliono farci diventare il nemico dell’Occidente. Io sono musulmano. E tutti i musulmani sanno benissimo che uccidere un altro uomo è proibito». Cosa pensi dei bombardamenti? «L’unica cosa che non manca in Siria sono le armi. Le bombe uccidono anche gli innocenti».
Refat Dakka ha due sogni: iscriversi a un corso da elettricista e continuare ad aiutare gli altri profughi. È impaziente per il Natale, è stato lui a decorare tutta la casa dei ragazzini siriani: «Sarà il primo Natale in pace dopo quattro anni. Il mio amico Erik mi ha promesso in regalo una chitarra acustica. Ci siamo conosciuti qui. Abbiamo parlato di tutto. Lui mi chiama “Bro”, fratello. Anche per me lo è. E quando ci penso, a tutta questa fortuna che ho avuto, mi viene voglia di ridere. Anzi, sai cosa ti dico?». Cosa, Refat? «Sono proprio felice».