Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 16 Mercoledì calendario

L’Italia difenderà la diga di Mosul • Caos a Los Angeles per un allarme bomba • È morto Licio Gelli • Nuovo processo per i cinque medici del caso Cucchi • Il toxic worker costa all’ufficio 12mila euro • Il ventiseienne che ha ucciso i genitori a coltellate

 

Iraq Matteo Renzi ha annunciato che 450 militari italiani partiranno presto per Mosul, Iraq, la prima linea della guerra all’Isis. I nostri soldati dovranno proteggere la diga sul fiume Tigri, «cuore di un’area molto pericolosa al confine con lo Stato islamico, la diga è seriamente danneggiata e, se crollasse, Bagdad (350 chilometri a sud, ndr) verrebbe distrutta». L’appalto per la sua risistemazione è stato vinto dal gruppo Trevi di Cesena: una commessa del valore di oltre 2 miliardi di dollari. Ma per gli operai al lavoro servirà la massima protezione e così il governo iracheno si è rivolto a Roma per chiedere aiuto: tra personale militare e civile, in realtà, alla fine potrebbero essere impiegati più di 600 uomini. La diga è il più grande serbatoio artificiale dell’Iraq, alta 131 metri e lunga 3,2 chilometri, con una capacità di 8 milioni di metri cubi e fonte di elettricità per 1,7 milioni di persone. Inaugurata nel 1983 sotto Saddam Hussein, conquistata dalle milizie dell’Isis nell’agosto 2014 per due settimane, fu poi riconquistata dai peshmerga filo-iracheni con l’aiuto dei raid aerei americani, ma il Califfato l’ha sempre vista come una possibile arma letale, una catastrofica «bomba d’acqua» da utilizzare, facendola saltare in aria, per piegare la resistenza delle province di Ninive e Kirkuk e arrivare così fino a prendere Bagdad. I tempi tecnici per l’invio dei nostri militari, che si uniranno a inglesi e americani, richiederanno qualche settimana (Caccia, Cds).

Los Angeles A Los Angeles un allarme bomba, arrivato via mail dalla Germania, ha fatto prendere alle autorità locali una decisione clamorosa e senza precedenti: chiudere tutte le scuole pubbliche, cioè circa 900 istituti dove vanno ogni giorno oltre 640.000 studenti. La mail, firmata con un nome arabo, arrivata verso le dieci di sera di lunedì, diceva che 32 complici dei terroristi di San Bernardino erano pronti ad entrare in azione nel nome di Allah, per colpire le scuole della città. Faceva riferimento a zainetti bomba, pacchi esplosivi, fucili da guerra, agenti nervini. Nelle stesse ore quel messaggio era arrivato a che a New York, ma il capo della polizia Bratton lo ha giudicato non attendibile: «Era chiaro - ha detto - che a scriverlo era stata una persona che guarda troppi telefilm sul terrorismo tipo Homeland». Diversi erano gli indizi che avevano portato Bratton a questa conclusione, dal nome di Allah scritto con la prima lettera minuscola, all’uso di parole scurrili non adatte al linguaggio di un musulmano radicale. New York così ha deciso di non reagire. Da Los Angeles, invece, il sindaco Eric Garcetti ha spiegato: «Spero che la minaccia fosse falsa, ma non potevamo correre il rischio che fosse vera» (Mastrolilli, Sta).

Gelli Licio Gelli, ex Gran Maestro della loggia massonica P2, è morto ieri a 96 anni a Villa Wanda, la sua casa nei pressi di Arezzo. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, imprenditore, il suo nome è legato allo “scandalo P2”, esploso il 17 maggio del 1981 quando i giudici milanesi Colombo e Turone, che indagavano sul crac Sindona, arrivarono alle liste degli appartenenti alla loggia massonica della quale Gelli era Gran Maestro. Mille nomi, tra i quali figuravano politici, giornalisti, militari, alti gradi dei servizi segreti accanto a editori, giornalisti, magistrati e imprenditori. Tra questi i finanzieri Roberto Calvi e Michele Sindona, ma anche Silvio Berlusconi. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L’11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c’è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l’estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto (Paolucci, Sta).

Cucchi Sei anni dopo, i tre agenti di polizia penitenziaria accusati di aver pestato Stefano Cucchi, escono definitivamente di scena. La Cassazione conferma per loro la sentenza di assoluzione del secondo grado, laddove una prima indagine — basata sul testimone «meramente uditivo» Samura Yaja — li accusava di essere i responsabili. D’accordo con l’accusa rappresentata dal procuratore generale Nello Rossi, i giudici della Cassazione ordinano invece un nuovo processo per i medici del Pertini precedentemente assolti con una decisione che lo stesso pg aveva definito «ondivaga» e «incoerente». Medici e primario del Pertini erano stati accusati (e condannati in primo grado) di omissioni gravissime nei confronti del paziente-detenuto, al quale non avrebbero dato cibo né acqua. E al quale avrebbero negato perfino, ha sottolineato nella requisitoria Rossi, l’accompagnamento in bagno, come rivelato dall’autopsia sull’apparto urinario. Adesso il nuovo processo potrebbe giocarsi proprio su questo punto (Sacchettoni, Cds).

Toxic worker L’Harvard Business School ha dedicato una ricerca al toxic worker (lavoratore tossico), cioè il collega bravissimo ma narciso, quello sicuro di sè che con le sue battute acide abbatte il morale della squadra, ma anche quello che gioca sporco, l’invidioso che bisbiglia critiche delegittimando il lavoro degli altri o lo spaccone che si prende meriti non suoi. Secondo gli autori della ricerca, l’analista del lavoro Michael Housman e il professore di amministrazione aziendale Dylan Minor, che hanno studiato 50mila casi americani, «calcolando i costi di cause di lavoro, risarcimenti e malattie dei colleghi stressati, il cattivo comportamento costa alle aziende 13mila dollari (12mila euro) l’anno a “tossico”». Al contrario, «assumere un lavoratore leale fa guadagnare all’azienda 6mila dollari l’anno (5mila euro)». I “tossici” sono tollerati, spiegano i ricercatori, perché «il management li considera uno sprone per gli altri». Che però è una falsa assunzione: lo studio dimostra infatti che la presenza di un “tossico” demotiva capi e colleghi che lavorano sempre meno e peggio. «Meglio assumere qualcuno meno sicuro di sé ma empatico» (Lombardi, Rep).

Delitto Giuseppe Mugnos, 62 anni, e Francesca Re, 60 anni. Marito e moglie, residenti a Milano, lui, titolare di una piccola impresa di pulizia, solito picchiare la moglie, una passione per la bottiglia, stava sulle sedia a rotelle a causa di un diabete arrivato dopo una cirrosi epatica che gli aveva portato via tutte e due le gambe. Con loro abitava l’unico figlio Davide, 26 anni, tossico e alcolista, depresso, nullafacente, tornato a casa da qualche giorno dopo un periodo in una comunità vicino Frosinone, a detta dei vicini «molto aggressivo». L’altra notte, in salotto, la mamma gli disse che era troppo strano e perciò doveva tornare in comunità, allora lui prese un coltello da cucina e le infilò la lama almeno venti volte nel collo e nella pancia. Poi raggiunse il padre in camera da letto e accoltellò più volte pure lui. Un poliziotto che abita al piano di sotto sentendo le grida corse su, il ragazzo gli aprì la porta in pigiama, la lama ancora in mano, e gli disse: «Mi avevano fatto arrabbiare. Li odiavo». Poi, in commissariato, ripetè a verbale: «Mia madre mi voleva rimandare in comunità. Era cattiva. La odiavo. Voleva uccidermi». Verso le quattro di notte di lunedì 14 dicembre al settimo piano di un palazzone beige in via Edison 666 a Sesto San Giovanni, Milano (Poletti, Sta).

(a cura di Roberta Mercuri)