la Repubblica, 16 dicembre 2015
Cucchi, un processo da rifare. Tre verdetti non sono stati sufficienti a spiegare come e perché Stefano morì
Sei anni non sono bastati per arrivare alla verità. Ma la sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione che manda definitivamente assolti tre agenti di polizia penitenziaria e dispone un nuovo processo di appello per i cinque medici (condannati in primo grado e assolti in appello) della struttura ospedaliera che avrebbe dovuto “proteggere” Stefano Cucchi e, al contrario, contribuì, indifferente, a causarne la morte, non è una resa dello Stato di diritto a una barbarie. Al contrario, indica finalmente dove e come quella verità può e deve essere cercata.
Separando i destini degli agenti di polizia penitenziaria da quelli dei medici, la Cassazione smonta infatti il processo di appello nella sua più incongrua, cinica ed esiziale conclusione. Che della morte di Stefano Cucchi fosse impossibile stabilire le cause. E fosse persino inutile ostinarsi a individuarle. E, dunque, che fosse esercizio altrettanto sterile cercarne le responsabilità. Perché – come aveva intelligentemente argomentato il sostituto procuratore generale Nello Rossi nella sua requisitoria – se si stabilisce che «una morte è stata inspiegabile, è a quel punto vana la ricerca di ogni responsabilità, perché ciascun imputato potrà difendersi obiettando che il suo comportamento non è stato “decisivo” nell’evento fatale». E che dunque un solo esito è possibile. L’assoluzione. Sia di chi massacrò Stefano Cucchi abusando della divisa che indossava. Sia di chi, indossando il camice bianco, ebbe il coraggio di certificarne le “buone condizioni generali di salute” a dispetto di due fratture alle vertebre che lo avevano semiparalizzato e avrebbero trasformato la sua vescica in una spaventosa sacca gonfia di 1.400 centimetri cubici di urina.
Ma c’è di più. Con la sua sentenza, la Cassazione dimostra di non essere prigioniera della torre eburnea dei marmi del Palazzaccio. Censurando i giudici dell’appello lì dove si sono in modo supponente sostituiti alle perizie di parte e di ufficio, e ribellandosi dunque all’idea che la morte di Stefano Cucchi sia un “mistero della scienza”, la Corte accompagna infatti e allarga il varco aperto dalla nuova indagine condotta dalla Procura della Repubblica. Sappiamo solo oggi, infatti, e sapevano bene i giudici di legittimità ieri nella loro lunga camera di consiglio, che a consegnare Cucchi a una lunga agonia fu un “violentissimo pestaggio” subito nella caserma della Compagnia dei carabinieri Casilina da parte di tre dei carabinieri che lo avevano arrestato poche ore prima. Sappiamo solo oggi che quella verità è stata occultata per sei anni, quantomeno nella colpevole disattenzione dei vertici dell’Arma dei carabinieri, che, ora, dovranno spiegare come sia stato possibile che due marescialli e tre appuntati abbiano messo nel sacco un’intera catena gerarchica su una vicenda per la quale, da sei anni, il Paese intero, insieme a una famiglia, chiede giustizia. Sappiamo solo oggi che nuove perizie stabiliscono senza margine di dubbio che le fratture alla spina dorsale del povero Stefano Cucchi non erano “esiti di antichi traumi”, ma il segno di un’aggressione furiosa che, curiosamente, per sei anni, altri periti “non hanno visto”.
Se insomma da oggi l’inchiesta della Procura di Roma potrà arrivare finalmente ad afferrare le responsabilità della morte di Stefano Cucchi è proprio grazie alla sentenza della notte scorsa. Alla possibilità non solo di un nuovo processo di appello in cui i medici del Sandro Pertini non potranno trincerarsi dietro l’arcano di una “morte misteriosa”. Ma anche di un futuro processo di merito che rinunciando a inseguire le asserite responsabilità degli agenti della polizia penitenziaria su cui, per sei anni, i carabinieri coinvolti nel pestaggio hanno consapevolmente e sapientemente scaricato le loro colpe, possa finalmente consegnare alla giustizia gli autori dello scempio.
Citando Sant’Agostino e Benedetto XVI, il pg Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma negli anni della vana ricerca della verità su Stefano Cucchi e figura di spicco di Magistratura democratica, ha detto ieri nella sua requisitoria: «Lo Stato senza diritto è una banda di briganti». Per questo, con coraggio ha chiesto e ottenuto ieri che venisse confermata l’assoluzione di coloro (gli agenti di polizia penitenziaria) nei cui confronti non esiste una prova degna di questo nome invitando a rimettere al centro il diritto e dunque a dare un nome “ai briganti”. Per questo, l’avvocato Fabio Anselmo e con lui la famiglia Cucchi, di cui è legale, ieri, con altrettanto coraggio e dignità ha rinunciato al proprio ricorso nei confronti degli stessi agenti di polizia penitenziaria dimostrando di non volere “un colpevole a ogni costo”, ma “i colpevoli”.