la Repubblica, 16 dicembre 2015
Quei 500 italiani che dovranno proteggere l’acqua di Mosul. Se l’Isis facesse saltare la diga di Chambarakat anche Baghdad verrebbe travolta dall’onda
Undici miliardi di metri cubi d’acqua, arrivata dalle nevi delle montagne turche nel corso del Tigri, il “fiume rapido” degli antichi, sacro agli Ittiti. È sulla barriera di cemento armato che quest’acqua si ferma, per rifornire l’intera zona di Mosul, nel nord Iraq, di energia elettrica. Ed è di questa barriera che 450 o forse 500 soldati italiani dovranno occuparsi, proteggendola e garantendone il restauro, affidato anch’esso a un’impresa del nostro Paese, la Trevi di Cesena.
La diga Chambarakat, che un tempo non lontano si chiamava diga di Saddam, deve continuare a fare il suo lavoro. O comunque sia, non deve diventare una minaccia per le città a valle, a partire proprio dal capoluogo della provincia di Ninive, Mosul, oggi controllata dagli uomini di Daesh, il sedicente Stato islamico.
Quando i miliziani di Abubakr al Baghdadi avevano issato le bandiere nere sulle strutture di cemento, nell’agosto del 2014, l’allarme era al massimo livello: la diga aveva la potenzialità di trasformarsi in una “bomba d’acqua”. Una sua eventuale distruzione avrebbe potuto generare un’onda alta una ventina di metri, che avrebbe distrutto la città, devastato l’intera zona e raggiunto persino Bagdad, 350 chilometri più a sud.
Che l’Is volesse utilizzarla come arma di distruzione di massa o preferisse invece stabilizzare il suo controllo e gestirne l’utilizzo, per i curdi, per il governo iracheno e l’Occidente il pericolo era comunque intollerabile.
Appena pochi giorni dopo la caduta della diga nelle mani degli islamisti, i peshmerga riuscirono a conquistare le città vicine Tel Skuf, Sharafiya e Batnaya, grazie anche all’offensiva dell’aviazione statunitense. Era il 18 agosto quando Barack Obama annunciò che la struttura era tornata saldamente in mani curde e irachene.
Che il compito di proteggere la diga sia affidato all’Italia, in collaborazione con le forze Usa, è un ricorso della Storia, visto che la sua costruzione, partita nel 1980, era stata affidata a un consorzio italo-tedesco.
Ma adesso l’impegno italiano è su due fronti: il restauro e la protezione. Il primo aspetto dovrebbe essere affidato a squadre di tecnici civili: la diga è in cattive condizioni, e secondo un rapporto del Genio militare americano «è la più pericolosa del mondo». In argomento, la Trevi vanta una robusta esperienza: sul suo sito si parla di interventi in mezzo pianeta.
Ai militari – a questo punto il contingente schierato in Iraq sale a 1400 persone – toccherà proteggere l’impianto ma anche, ovviamente, le mae- stranze al lavoro sulla struttura.
In queste ore gli Stati Maggiori stanno preparando i dettagli dell’intervento, valutando le diverse possibilità di schieramento. La missione dovrebbe essere affidata alla brigata Folgore, che attualmente non è impegnata in operazioni estere. Altre ipotesi al vaglio sono la brigata Garibaldi o la Sassari.
Molto è ancora da decidere: quanti punti di controllo fissi saranno necessari, se i soldati avranno compiti di pattugliamento regolare, se sarà italiana anche la responsabilità del controllo fluviale, eccetera. Ma da un punto di vista strategico, la missione è semplice: al contingente italiano sarà richiesto di tenere sotto controllo la struttura e le postazioni da cui possono partire eventuali minacce.
Ipotetici attacchi del Califfato potrebbero essere condotti con mezzi terrestri ma anche con missili contraerei modificati, disponibili in abbondanza nei vecchi arsenali di Saddam o magari forniti dai jihadisti libici. In teoria, argomenta il generale Giuseppe Cucchi, ex consigliere militare di Palazzo Chigi, una diga di cemento armato è più vulnerabile di una di terra, come quella egiziana di Assuan.
Ma la struttura di Mosul è comunque molto robusta, e un’eventuale avanzata di terra dovrebbe essere fermata senza troppe difficoltà dall’aviazione alleata con droni armati e cacciabombardieri.