Corriere della Sera, 16 dicembre 2015
Il 16 dicembre la Fed dichiarerà conclusa la fase dei tassi zero. Ma non vuol dire che tutto tornerà come prima
Per una strana coincidenza il 16 dicembre continua ad essere un giorno diverso dagli altri per la banca centrale degli Stati Uniti. Era il 16 dicembre 2008 quando Ben Bernanke, il governatore di allora della Federal Reserve, decise di azzerare il tasso di riferimento per il mercato interbancario americano, inaugurando una nuova stagione dell’economia e della finanza americane: quella dei tassi a zero. E curiosamente sarà proprio il 16 dicembre di sette anni più tardi il giorno in cui Janet Yellen – da due anni alla guida della Fed al posto di Bernanke – dichiarerà conclusa proprio quella fase, alzando, come sembra, il tasso di interesse controllato dalla Fed per la prima volta dal 2006.
Oggi come allora, l’economia americana va bene: cresce a ritmi superiori al due per cento l’anno, con una disoccupazione vicina alla sua media secolare del 5 per cento. Oggi come allora l’inflazione Usa, al netto della componente energetica, è vicina al due per cento, da tutti considerato il giusto tasso di inflazione: non così alto da preoccupare le famiglie quando vanno a fare le spesa e non così basso da frenare i profitti aziendali. In una situazione di normalità, con poca disoccupazione e inflazione al due per cento, la ricetta ovvia delle banche centrali è quella di alzare i tassi. Per evitare il rischio che il motore dell’economia si surriscaldi. Negli ultimi dieci anni però molto è cambiato. La ripresa senza inflazione di oggi avviene infatti mentre il bilancio della Fed (che ne misura il coinvolgimento nel funzionamento dei mercati finanziari) si è moltiplicato per cinque rispetto alla metà degli anni duemila. Se oggi la borsa americana mette in sequenza aumenti record è anche a causa della ampia disponibilità di liquidità forse troppo a lungo immessa dalla banca centrale americana. Il che ha modificato alla radice il funzionamento dei mercati finanziari che ora – quando le cose vanno male – mettono in conto di essere salvati dalle banche centrali. E poi, in questo nuovo scenario, le decisioni delle banche centrali non possono essere più prese guardando solo a ciò che succede nel giardino di casa. Nello scorso settembre la Fed rinviò l’aumento dei tassi per non causare problemi valutari ad una Cina alle prese con uno grave calo del suo mercato azionario. E degli effetti della propria decisione sul cambio euro-dollaro ha probabilmente tenuto conto anche la Bce di Mario Draghi che coraggiosamente e giustamente ha scontentato i mercati estendendo solo marginalmente il suo programma di acquisto di titoli pubblici sui mercati finanziari.
Meglio dunque non sbagliarsi: la decisione della banca centrale americana del 16 dicembre 2015 non segnerà un tranquillizzante ritorno alla normalità ma piuttosto la prosecuzione di un percorso nei territori poco conosciuti e misteriosi in cui l’economia mondiale galleggia da anni.