16 dicembre 2015
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In morte di Licio Gelli
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
È morto l’ex gran maestro della P2, Licio Gelli. Se n’è andato poco prima della mezzanotte, a 96 anni, nella sua dimora storica a Castiglion Fibocchi. Dopo il ricovero nella clinica pisana di San Rossore, e la diagnosi senza speranza dei medici, la moglie, Gabriela Vasile, lo ha riportato a Villa Wanda.
IN questi casi, che più estremi non potrebbero essere, la questione vera è come sarà ricordato Licio Gelli.
Molto della sua lunga vita lascia pensare che lui si sarebbe accontentato di due qualità: quella di patriota e quella di poeta. Era parecchio italiano, in effetti, toscano di Pistoia, anche se nell’immediato e sanguinoso dopoguerra costretto, pure per il timore di vendette, a traslocare ad Arezzo – e ancora ieri, guarda la sopravvivenza degli scandali, il suo nome ricorreva ai margini di qualche cronaca sulla locale banca. Da Arezzo sviluppò la sua ascesa, e all’apice prese la residenza tra i cipressi di Villa Wanda, ricca magione invero fiabesca, con accessi e pertugi misteriosi e lingotti d’oro ritrovati nascosti dentro le fioriere. Sempre in zona, nel suo ufficio di Castiglion Fibocchi, la Guardia di Finanza trovò una sfilza di documenti che documentavano il potere, e tra questi quegli elenchi di nomi – 961 in tutto, numero d’ordine della tessera e situazione di pagamento o meno delle quote – su cui si accese, prese il via e andò in scena il celebre affare della loggia segreta P2, di cui Licio Gelli fu l’indimenticabile “Maestro Venerabile”.
Era il marzo del 1981, i magistrati erano lì per ricostruire il finto rapimento di Sindona, da quelle carte si scoprì che nella lista c’era il Gotha della Repubblica (ministri, banchieri, generali, magistrati, imprenditori, editori, direttori di giornali e pure qualche cantante), quindi cadde il governo Forlani, il nuovo presidente Spadolini sciolse la loggia, e insomma di Gelli e della P2 si parlò davvero, animatamente e a lungo, con indagini, processi e commissioni parlamentari che partorirono un’intera biblioteca di incredibili, ora noiosissimi, ora spassosissimi volumoni. Senza però che mai, come accade spesso in Italia, si riuscisse a capire per bene chi diavolo fosse lui, Gelli – non a caso da Craxi soprannominato “Belfagor” – né quale infernale entità l’avesse spinto a radunare tutta quella gente, e per quali scopi.
Furono tante, forse troppe le ipotesi. Una “cintura di sicurezza” della Nato contro il pericolo comunista. O magari una squadra di pronto intervento andreottiano specialista dilavoretti sporchi e ricattucci. Oppure un gruppo di imbroglioni e millantatori guidato dal più furbo di loro. O anche una camera di compensazione dei potenti della tarda Prima Repubblica, compresi i cugini del Pci, cui delegare la risoluzione di impicci poco commendevoli, ma indispensabili alla ragione di Stato (petrolio, servizi segreti, traffico di armi, rapporti con leader internazionali impresentabili o quasi).
La massoneria o meglio le massonerie ufficiali, come quasi sempre succede, c’entravano e non c’entravano. In qualche modo avevano dapprima tollerato lo smanioso attivismo, le fervide ambizioni e i sinuosi movimenti di Gelli, poi gli avevano lasciato campo libero. Nel frattempo lui si era legato con un altro bel tipo, a nome Umberto Ortolani, che come lui aveva interessi in Argentina, ma anche buoni rapporti con Santa Romana Chiesa. Insieme divennero – o almeno così li chiamava la povera moglie di Roberto Calvi – “il Gatto e la Volpe”.
Insieme arruolarono personaggi decisivi dell’economia e della politica; insieme misero le mani anche sul Corriere della Sera; insieme si giocarono prima il bancarottiere Sindona e poi il presidente dell’Ambrosiano, in tal modo innescando vicende anche tragiche: agguati, rapimenti, fughe, assassini, suicidi, furti di miliardi. Qualche indagine sostiene che dal potere occulto della P2 promanava una certa puzza di dinamite, quasi certamente alcuni depistaggi dopo le stragi non smentiscono quel fetorino.
Anche Gelli comunque fu catturato, poi riuscì avventurosamente ad evadere da un carcere svizzero, tornò in Sudamerica, dove aveva messo in salvo altre carte. Quindi ritornò in Europa, aveva il gusto del travestimento e si mascherò addirittura da suonatore di organetto, finì di nuovo dentro. Alla fine parlava un po’ come un capo indiano. Consapevole del suo potere di discredito, abbracciava ora l’uno ora l’altro politico come una specie di rischioso trastullo e non molti anni orsono ha regalato le sue carte – alcune sue carte, verosimilmente – all’archivio di Stato. Nella catalogazione ebbe un ruolo Linda Giuva in D’Alema.
Si è fatto intervistare per due o tre libri-interviste, purtroppo abbastanza deludenti. Di suo nel 1990 ha scritto e pubblicato un incredibile manuale: “Come arrivare al successo” (Aps, 1990), con norme sul cibo, il riposo, i rapporti con i collaboratori. Ma la sua vera e divorante passione furono le poesie, per lo più del genere meditabondo e intimista, di scarso apprezzamento critico, ma di cui esiste produzione tanto vasta quanto densa di premi letterari di serie B e C.
Più che semplicemente patriota, in realtà, Gelli era rimasto fascista. Volontario in Spagna poco più che adolescente. Uomo di di fiducia dei fascisti anche fuori Italia, dovette recuperare nell’odierno Montenegro un certo tesoro soffiato alla corona yugoslava. Secondo un libro di Piazzesi, “La caverna dei sette ladri” (Bal- dini&Castoldi, 1996) lo rese al Cln e si trattò del primo indebito finanziamento ai partiti. Ma anche sul fascismo le cose sono più complicate perché durante la Resistenza Gelli aveva fatto dei favori ai partigiani salvando diverse vite, e quasi certamente anche la sua. Si era poi messo al servizio di alcuni deputati democristiani, ma il gusto astuto delle trame, degli ammiccamenti, del doppio gioco, dei documenti che fanno bene a quello e male a quell’altro ce l’aveva nel sangue.
“Cartofilo” si definiva, e “burattinaio” in una celebre intervista a Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera. In realtà la sua scalata sociale cominciò come dirigente della fabbrica di materassi Permaflex, mentre seguitava a coltivare relazioni con il mondo delle spie. Ecco come pure si fa carriera in Italia.
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Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera
Licio Gelli, l’ex gran maestro della P2 al centro dei misteri d’Italia, è morto ieri a 96 anni nella sua dimora «storica» villa Wanda, alle porte di Arezzo. Fascista, poi partigiano, negli anni 60 fu «maestro venerabile» della Loggia massonica coperta P2. La lista degli iscritti (uomini di governo, agenti segreti e imprenditori) fu scoperta a villa Wanda nel 1981, provocando un terremoto politico-giudiziario.
Per più di 34 anni la villa sulle colline di Arezzo è stata nell’immaginario collettivo il centro delle trame che hanno avviluppato l’Italia, dalla P2 alla trattativa Stato-mafia, ed è proprio in una delle stanze di villa Wanda che Licio Gelli, Gran maestro della Loggia massonica «Propaganda due», si è spento a 96 anni probabilmente portandosi con sé segreti mai confessati.
Il nome di Licio Gelli emerge dalle nebbie degli anni di piombo nel 1981, il 17 marzo, quando i giudici istruttori milanesi Gherardo Colombo e Sergio Turone, che indagavano sul finto rapimento del banchiere Michele Sindona, perquisirono la magione e la fabbrica di materassi «Giole» a Castiglion Fibocchi. Cercavano una lista di 500 imprenditori che avevano esportato capitali all’esterno grazie all’aiuto di Sindona, trovarono invece in un ufficio della fabbrica, all’interno di una valigia, un elenco di iscritti alla loggia segreta Propaganda 2 guidata dal Gran maestro Licio Gelli. Una lista di 962 nomi che includeva anche tre ministri oltre ai vertici dei servizi segreti, 208 ufficiali, 18 alti magistrati, 49 banchieri, 120 imprenditori (tra cui l’allora editore del Corriere della Sera Angelo Rizzoli), 44 parlamentari, 27 giornalisti. Furono in tanti a smentire la loro appartenenza alla loggia.
Dai documenti sequestrati emerse che Gelli, oltre che con Michele Sindona, anche lui nell’elenco della P2, aveva avuto legami con il generale e Lorenzo, il principe Valerio Borghese e con altri personaggi che erano ritenuti coinvolti nei venti anni precedenti nelle manovre sovversive di destra. Uno scandalo di proporzioni enormi che spinse il Parlamento a varare una commissione d’inchiesta apposita, guidata dalla Dc Tina Anselmi e a interventi legislativi contro le associazioni segrete, per altro vietate dalla Costituzione.
Pochi giorni dopo il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani, democristiano, si dimise mentre il Parlamento approvò una legge per lo scioglimento della P2. La guida del governo andò al repubblicano Giovanni Spadolini che, rivolgendosi agli italiani, parlò di «emergenza morale» per le «gravi alterazioni e distorsioni nei meccanismi istituzionali».
«Dal giorno della scoperta delle liste di me è stato detto tutto e il contrario di tutto», dichiarò Gelli che con le sue affermazioni ha sempre lasciato che un alone di mistero continuasse a circondarlo, fino alla fine. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, Licio Gelli si arruolò a 18 anni nelle camicie nere di Franco in Spagna, in Italia fu prima repubblichino, poi partigiano. Nel 1944 sposò Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. L’inchiesta P2 lo portò in carcere dop l’arresto a Ginevra del 13 settembre 1982.
Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evase il 10 agosto 1983, ma il 21 settembre successivo si costituì a Ginevra da dove fu estradato in l’Italia nel febbraio 1988, ma ad aprile ottenne la libertà provvisoria per motivi di salute. Arrestato ancora nel 1997, si vide revocare l’ordine di custodia cautelare perché il reato per il quale gli erano state messe le manette non era tra quelli per cui era stata concessa l’estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione confermerà la condanna a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano, ma lui sparirà an- cora a maggio, per tornare 4 mesi dopo. Otterrà i domiciliari, che sconterà a villa Wanda.
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Gianluca Paolucci per La Stampa
Licio Gelli, ex Gran Maestro della loggia massonica P2, si è spento ieri a 96 anni. L’ex venerabile è mancato nella serata di ieri a Villa Wanda, la sua casa nei pressi di Arezzo. Da tempo gravemente ammalato, nelle settimane scorse era stato ricoverato in una clinica da dove era stato dimesso qualche giorno fa perché ormai in fin di vita.
Il materassaio, Belfagor, sono alcuni dei soprannomi collezionati da Gelli nel corso della sua lunga vita.
Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, imprenditore, Gelli è salito alla ribalta delle cronache per le vicende della Loggia P2. Coinvolto in varie inchieste e finito in carcere in Svizzera e in Francia, il suo nome è stato legato a varie vicende più o meno torbide della prima e della seconda repubblica.
Giovanissimo si arruolò nelle camicie nere per combattere al fianco di Franco nella guerra civile spagnola. Fu fascista, repubblichino e, alla fine del conflitto, partigiano. Dopo la guerra visse per un periodo in Argentina, per poi tornare in Italia e lavorare alla fabbrica di materassi Permaflex.
Il suo nome è però legato allo “scandalo P2”, esploso il 17 maggio del 1981 quando i giudici milanesi Colombo e Turone, che indagavano sul crac Sindona, arrivarono alle liste degli appartenenti alla loggia massonica della quale Gelli era Gran Maestro. Mille nomi, tra i quali figuravano politici, giornalisti, militari, alti gradi dei servizi segreti accanto a editori, giornalisti, magistrati e imprenditori. Tra questi i finanzieri Roberto Calvi e Michele Sindona, ma anche Silvio Berlusconi.
Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L’11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c’è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l’estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell’ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco. La villa – nella quale tuttavia continuò a vivere – è rientrata nella sua disponibilità piena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali.
Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa; la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali si svolgeranno probabilmente domani a Pistoia, mentre la camera ardente dovrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda.
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Daniele Bellasio per il Sole 24 Ore
Licio Gelli è il risvolto di copertina di una nazione che da sempre è un romanzo anche noir, il perfetto risvolto di copertina, quello che non svela il finale, quello che non può svelare il finale perché è solo mistero.
È entrato e uscito da scandali, polemiche, misteri, soprattutto misteri. Ha rappresentato per anni la persona che molti avevano in mente quando si usava e si abusava di espressioni come “convitato di pietra”, “grande vecchio”, burattinaio dietro le quinte fino a “Belfagor”, “il venerabile”.
In quel risvolto di copertina non si svelano bene neanche i legami tra i protagonisti. L’ex gran maestro della Loggia P2 è stato sempre interpretato come qualcuno di molto pericoloso ma anche no. Perché ha qualcosa di drammaticamente italiano il suo percorso, ovviamente non nel senso lusinghiero del termine: la passione per la politica, il segreto come ingrediente indispensabile della trama, di una trama di successo, vicende giudiziarie, arresti, fughe, libri, giornali, battute tre volte taglienti.
È morto a Villa Wanda, quella Villa Wanda che ciclicamente tornava in qualche telegiornale, per qualche nuovo capitolo del giallo lungo quanto un secolo breve ma dalle ombre lunghe. Camicia nera a 18 anni con Franco, diceva che era nato fascista e sarebbe morto fascista, ma è stato tutto, tutti i risvolti, “repubblichino” ma anche partigiano. Perfino la fabbrica, la filiale dell’azienda di materassi, la provincia, da Frosinone ad Arezzo, l’italianissima provincia. La massoneria e quella loggia dal nome “propaganda”, il fisco fuggito e le prescrizioni godute.
Sono parole che sanno di storia e di malastoria italiana. La politica terremotata dal suo segreto scoperto, dopo Sindona e il disvelamento della P2, s’intreccia con il mondo dei giornali terremotati da altri segreti. Quei mille nomi era contemporaneamente l’elenco della vergogna ma anche il suo trofeo, il suo vischioso stemma di successo, il riconoscimento (per lui) di un fascino esercitato o di un’efficacia pervasiva nella ramificazione della sua carsica rete di favori e sostegni opachi, extra legem ma vasti.
Ahinoi. E c’erano tutti, editori, militari, ministri, parlamentari, finanzieri, 007, prefetti, questori, magistrati, i mille risvolti di copertina di un’Italia che ama anche muoversi nella nebbia. In tutti i maggiori scandali di trent’anni italiani quella nebbia - a lui forse sarebbe piaciuto dire il “fumo” - da qualche parte spuntava.
Sempre. Non si sapeva mai dire, pensandoci, se fosse in fuga, in libertà, agli arresti, ai domiciliari, vivo o non più, ma si sapeva che se c’era un mistero prima o poi qualcuno lo avrebbe evocato. A lui forse, per vanità, neanche dispiaceva. Ma il fascino dell’opaco non può far dimenticare a nessuno i pericoli del muoversi nelle nebbie fitte. Da diradare.