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 2015  dicembre 14 Lunedì calendario

Ritratto di Andrea Munari, nuovo capo di Bnl

Per il suo quarto inizio la Bnl ha scelto un capoazienda atipico, che mai avrebbe potuto diventare amministratore delegato di una grande banca italiana fino a pochi anni fa. A un secolo dalla nascita con nome Bancoper, 18 anni dalla privatizzazione inquieta, dieci dalla contesa dei “furbetti del quartierino” culminata con l’Opa francese, Banca nazionale del lavoro è a tutti gli effetti un gruppo normalizzato sotto l’ala del gruppo di Parigi, tra i più moderni e ramificati operando in 75 paesi. Ma le sfide lanciate nel 2006, quando Bnp Paribas mise fine ai sogni di grandezza (bancari) dell’Unipol e a quella scalata senza esclusione di colpi, non sono tutte compiute. L’attuale contesto, che vede le banche italiane con il fiato corto per la difficoltà del mercato e le richieste dei regolatori, è propizio perché Bnl cerchi di catturare quegli affari a metà tra la banca commerciale e corporate, incentrate nell’internazionalizzazione piena delle imprese clienti. Lo ha detto Luigi Abete, presidente di lunga data dell’istituto: “Bnl vuole vivere in modo proattivo questo essere banca europea di diritto italiano. Oggi l’obiettivo fondamentale è quello di internazionalizzare le grandi, medie e piccole imprese italiane. Che hanno un tasso di internazionalizzazione significativo, ma percentualmente inferiore alle consorelle francesi o tedesche. In questo contesto si inserisce benissimo il ruolo di Andrea Munari, che offre uno skill naturale per queste finalità”.
Non che manchino i titoli nel curriculum ad Andrea Munari, 53 anni, nome poco conosciuto ai consessi del network finanziario nostrano, ma che nell’Europa finanziaria è di casa. Non gli sono caduti in tasca dall’alto: ha percorso una strada molto lunga, che in un trentennio dalla provincia di Treviso lo ha portato a lavorare nelle sale operative delle grandi banche d’affari Morgan Stanley e Barclays a Londra e a Parigi, poi a Milano nell’Imi, fino all’esperienza imprenditoriale nel Credito Fondiario. Pochi banchieri della sua età annoverano una carriera così eclettica e ramificata, nel trading sui titoli governativi messi sotto attacco sul mercato, poi nella guida della macchina da soldi dell’investment banking di Intesa Sanpaolo, e negli ultimi mesi nella gestione – in proprio – di crediti problematici. Eppure, la maggior parte dei banchieri italiani è ancora scelta tramite meccanismi di cooptazione interni all’istituto di turno (o peggio), e dopo lunghi percorsi nei crediti, nella rete commerciale o, se esterni, dalla consulenza strategica. Quasi mai diventa ammini-stratore delegato un gestore di rischi: anche se dalla crisi finanziaria del 2007 il peso dei mercati e la cura dei rischi che da questi promanano s’è amplificata (è perfino inutile fare riferimenti ai 788 milioni di bond bancari subordinati targati Marche, Etruria, Ferrara e Chieti di cui s’è appena azzerato il valore). “È molto più frequente vedere risk manager a capo delle banche in altri paesi – racconta Marco Mazzucchelli, managing director di Julius Baer, che assunse Munari nel 1991 a Londra, per lavorare sui titoli governativi -. Chi come noi ha fatto il trader negli anni ’80 e ’90, quando il quadro regolatorio era molto più lasco, o ha fatto grandi buchi oppure ha dovuto sviluppare una disciplina superiore. Una formazione sul campo, in cui dovevi imparare a essere risk manager di te stesso “.
Un apprendistato durato trent’anni, in ambienti diversi e senza spinte, partendo dalla gavetta delle Officine Facco, nella provincia padovana dove nel 1987 il giovane Munari iniziò da assistente del direttore finanziario. Facco produce gabbie per polli e Munari si laureò due anni dopo, alla Bocconi, in politica economica. “È un manager ’razza Piave’, uscito dalla provincia dei valori e dei contenuti, abituato a lottare e a rialzarsi”, dice un collega che lo conosce, e che mette in relazione questi tratti al fatto che Munari tifi per l’Inter. È una formazione del genere che è piaciuta alla banca francese più cosmopolita d’Europa. Quando a luglio Fabio Gallia, guida del gruppo fin dallo sbarco francese in Italia, ha scelto di cogliere la sfida della Cassa depositi e prestiti, una fila di banchieri ha iniziato a mandare segnali di fumo e gradimento per la sua poltrona. Si è scritto di Fabrizio Viola (Mps), Roberto Nicastro (ex Unicredit, ora presidente delle quattro banche salvate dal sistema), Alessandro Decio (ex Unicredit), Flavio Valeri (Deutsche Bank), Giuseppe Castagna (ad di Bpm), Marina Natale (vice dg Unicredit), il vice dg interno vicario Angelo Novati. Ma i parigini sono parsi da subito determinato a prescegliere la vocazione internazionale. Per questo ha vinto l’outsider che dalla corte delle grandi banche commerciali – anzi, della più grande: Intesa Sanpaolo – era da poco stato espulso, e si era diretto su altri lidi professionali. Gli anni in Cà de Sass, in cui Munari è stato dal 2006 ad di Banca Caboto (il ramo di investimento di Intesa) e dal 2007 direttore generale di Banca Imi (nata dalla messa in comune delle attività di Intesa e del Sanpaolo), sono stati di risultati sonanti. Utili a palate, mettendo a frutto il bilancio e la rete clienti della maggior banca italiana e la sua liquidità a buon prezzo. Ma quando a fine 2011 Corrado Passera scelse l’avventura politica arrivò a capo di Intesa Sanpaolo Enrico Cucchiani. Un altro outsider, benché con un profilo molto diverso da quello di Munari. Quel che sembrò un sentire comune tra i due fu la volontà di rinnovamento, e di critica rispetto ad alcune operazioni “di sistema” – come Alitalia o Ntv – che Passera aveva congegnato, anche con la collaborazione di Gaetano Micciché. Ma la brusca defenestrazione di Cucchiani, percepito come un corpo estraneo e rigettato dalla prima linea di Intesa Sanpaolo, mise in crisi il rapporto tra Munari e Micciché, che in Banca Imi era suo diretto superiore. Due mesi dopo l’uscita dell’ex Allianz lasciava anche Munari, che forse avrebbe potuto aspirare a un percorso di crescita interno al gruppo, non solo nella costola Imi. Tempo altri due mesi e il banchiere ’razza Piave’ si inventò un altro film. Ancora nel solco di Morgan Stanley, che anni prima aveva cercato di rinverdire il Credito Fondiario per farne il suo braccio immobiliare e di processazione del cattivo credito; un progetto spirato sull’altare della grande crisi. Così a fine 2013 il progetto fu rispolverato da Tages, la holding del finanziere Panfilo Tarantelli che mise nuova liquidità coinvolgendo Munari come socio e ad per creare una banca focalizzata sui crediti deteriorati e illiquidi. L’avventura del Fonspa prosegue (con un nuovo fondo Usa che sta investendo un centinaio di milioni), ma Munari non ha voluto rifiutare l’offerta giunta da Parigi-Roma.
Dal 26 novembre Munari è dunque un pendolare di lusso tra Roma e Milano, diviso tra la sede centrale di Bnl e la città dove gira la finanza italiana, insieme agli affetti e ai tre figli (l’ultima neonata). Nel nuovo incarico, che comprende la responsabilità del gruppo Bnp Paribas per l’Italia, previo inserimento nel comitato esecutivo del gruppo a Parigi, Munari dovrà cercare di rilanciare la redditività della banca romana. Mai decollata sotto l’ala francese, che da una parte ha assicurato la liquidità e la patrimonializzazione che da sette anni macerano i banchieri italiani, ma dall’altra ha integrato i gruppi avocandosi alcune attività – tipo custodia titoli, finanza d’impresa e strutturata, immobi-liare, risparmio e gestioni – rivelatesi preziose nella costruzione dei margini in questa fase di tassi zero, e lasciato Bnl con un portafoglio impieghi non dei migliori (166 punti base il costo del rischio a giugno). Affinare le strategie tra Bnl e i “mestieri francesi” in Italia sarà, oltre all’internazionalizzazione, l’obiettivo su cui l’esperienza del nuovo capo, e la sua attitudine al gioco di squadra – già annunciata nella comunicazione interna per non turbare gli orfani di Gallia, e che comunque molti ex colleghi gli riconoscono – sarà misurata.