Affari&Finanza, 14 dicembre 2015
Renzi alla ricerca di una politica industriale credibile
Gli sgravi fiscali, il “pronto soccorso industriale” e l’attivismo a fasi alterne della Cdp non fanno esattamente una politica industriale. Fanno tre aree di intervento, scollegate tra loro, difficilmente riconducibili a un piano per il lungo periodo. È una scelta quella del governo, una strategia pragmatica, a tratti estemporanea, nella quale convivono elementi di vecchio interventismo statale con principi di libero mercato.
C’ è il tentativo, con l’Ilva, di ritornare temporaneamente alla siderurgia pubblica, ci sono le privatizzazioni (Poste e Ferrovie) e le liberalizzazioni per quanto con parecchie smagliature. Infine, una soluzione ibrida, pubblico-privato, per la banda larga. Insomma l’Italia non ha seguito altri paesi che, in piena crisi globale, hanno rotto il tabù e messo i capitali pubblici per ridisegnare il modello industriale, vale per tutti il caso dell’amministrazione americana che ha investito quasi 800 miliardi di dollari per la temporanea nazionalizzazione di Gm e Chrysler, delle banche (Citigroup), delle assicurazioni (Aic). L’Italia, schiacciata dal suo gigantesco debito pubblico, è rimasta agli anni Novanta o almeno in continuità con gli anni Novanta. Ha provato a cambiare schema di gioco di fronte al tracollo dell’Ilva, ma non ce l’ha fatta. L’Ilva (circa lo 0,06 per cento del nostro Pil) prima doveva essere venduta, poi davanti al rischio di una svendita al colosso Arcelor-Mittal è stata sostanzialmente nazionalizzata attraverso il commissariamento straordinario con l’obiettivo di essere risanata e quindi rimessa sul mercato attraverso una società mista per il turnaround. Doveva essere la svolta, la rinascita – nonostante il dramma tarantino – di una politica industriale, era la strategia disegnata da Andrea Guerra, ex consigliere economico del presidente del Consiglio Matteo Renzi ora passato al vertice di Eataly. Un’architettura non semplice, un ritorno in campo del pubblico in veste diversa dalle vecchie partecipazioni statali che oltre all’Iri produssero anche la Gepi, carrozzone per pagare gli stipendi ai dipendenti di aziende decotte. La strategia di Guerra è apparsa sbagliata alla prova con la realtà. L’Ilva continua a perdere 50 milioni al mese, resta intrappolata tra i rigidi vincoli dei processi di ambientalizzazione e l’incertezza dei procedimenti giudiziari. I suoi concorrenti stanno solo aspettando l’occasione per spartirsela con la sponda magari delle autorità europee. La gestione di un impianto mastodontico a ciclo integrale si è rivelata, in assenza di know how, ben più complessa di quanto apparisse. La retromarcia del governo, andato via Guerra, è stata clamorosa dopo che si è capito che la strada per il rientro dalla Svizzera del miliardo e 200 milioni della famiglia Riva non sarà affatto in discesa. E si è visto, anche in questa vicenda, che di capitale italiano per gli investimenti non ce n’è. Nella lunga crisi gli investimenti sono precipitati di quasi il 30 per cento. Numero che spiega meglio di tutti gli altri la fatica della risalita italiana. Non capitale privato, non capitale pubblico. Anche da qui il ripiegamento sugli interventi che gli esperti definiscono «di carattere orizzontale», non direttamente orientati sull’industria. Interventi cioè di carattere generale («dal rafforzamento dell’istruzione alla riduzione del carico fiscale e burocratico, ad una più intesa promozione della concorrenza specie nei settori dei servizi e delle utilities; ma anche interventi per rendere la giustizia civile più rapida o per migliorare le infrastrutture di trasporto e di comunicazione disponibili per le imprese», secondo l’elenco contenuto in uno studio dell’economista Gianfranco Viesti, importanti, certo, ma non tali da comporre una politica industriale attiva anche con qualche venatura déjà vu: l’individuazione del campione nazionale, la selezione delle filiere produttive da incentivare, il sostegno a progetti di ricerca, la concentrazione delle commesse pubbliche. È arrivato altro, sul piano orizzontale appunto: il credito di imposta per gli investimenti in innovazione e ricerca sulla spesa incrementale rispetto alla media del triennio precedente, il patent box con gli sconti fiscali (fino al 50 per cento per cinque anni) per i redditi derivanti dalle opere di ingegno, dai brevetti industriali, dai marchi, dal design. Infine, con la legge di Stabilità in via di approvazione, il cosiddetto superammortamento, in continuità con la precedente legge Padoan-Guidi e un po’ copiando “la Macron” francese, con il superammortamento del 140 per cento per chi investe in nuovi macchinari. Un pacchetto di misure fiscali (l’anno prossimo la riforma della pubblica amministrazione dovrebbe cominciare ad applicarsi) di sostegno all’imprenditoria. Verrebbe da dire una sorta di politica industriale preterintenzionale, dove sullo sfondo si delinea, volendo, anche un modello di capitalismo per l’epoca renziana: medie imprese innovative, esportatrici (la “banca-Sace” è del tutto coerente con questa visione), tendenzialmente solide sotto il profilo finanziario, talvolta quotate, comunque non esclusivamente dipendenti dal credito bancario. Di un credito bancario non sempre cristallino. La riforma delle banche popolari che con l’abolizione del voto capitario ha finito per disvelare un sistema di intrecci scandalosi, può ragionevolmente ascriversi tra i provvedimenti orizzontali di politica industriale. In una chiave di modernizzazione del contesto e di selezione della stessa struttura imprenditoriale. Che emerge anche ai tavoli delle crisi al ministero dello Sviluppo, al “pronto soccorso” di politica industriale. Qui è interessante notare come sia cresciuta la quota proprio delle aziende di medie dimensioni, quasi un processo di selezione all’interno della categoria vincente: erano 22, nel 2014 i tavoli per le aziende da 151 a 250 dipendenti, sono diventate 26. «In una auspicata azione di politica industriale se ne dovrà tenere conto», scrivono significativamente proprio i tecnici della task force dello Sviluppo. Che – quasi in controtendenza – con le soluzioni dei casi Whirpool, Ast di Terni e l’ex Lucchini di Piombino hanno dato prova che a volte l’intervento della politica può modificare una prospettiva industriale. Stesso discorso, mutatis mutandis, si può fare per la Lamborghini il cui Suv (grazie ai sostegni nazionale e regionale) si farà a Bologna e non a Bratislava. La politica può contare, dunque. Ma deve avere alleati intorno ad un’idea chiara. Entrambi non ci sono ancora nel progetto per la banda ultra veloce. È entrata in campo l’Enel, su indicazione del governo; ingresso ben salutato da Wind e Vodafone mentre l’ex monopolista Telecom non si è schierato. Cdp sarebbe pronta a giocare ma non si sa ancora bene come. Così, per ora, ci sono solo i 2,2 miliardi di euro per le cosiddette aree a fallimento di mercato. Molto lontano dai 12 miliardi immaginati dal governo a inizio anno. Troppo poco per parlare di politica industriale. Per ora è solo politica industriale preterintenzionale.